Domani in anteprima il docufilm: tanta Callas, tanto Toscanini, troppe cautele ma anche un po’ di ironia e qualche prezioso dietro le quinte
Un docufilm destinato al «colto pubblico» della Scala, per citare non solo l’annuncio iniziale di Manzotti nel ballo Excelsior, ma anche il baritono Leo Nucci in un passaggio di questo Tempio delle meraviglie. Il Teatro alla Scala, che sarà proiettato in anteprima in teatro domenica 20 settembre su uno schermo molto più grande del mio appartamento, per poi uscire in sala il 24 e il 25 novembre.
Interviste ad artisti e impresari, video e immagini di repertorio, Maria Callas, scene di fiction su personaggi minori del mondo operistico del passato, Maria Callas ancora, aneddoti di chi vive il teatro quotidianamente. Chiunque intervenga nei novanta minuti di durata del film, il primo dedicato al teatro milanese, dice che «alla Scala c’è qualcosa di diverso», perché «i muri del teatro parlano» e «i fantasmi dei grandi del passato ci osservano» – in particolare quello della Callas. Da Fontana a Chailly, dal giovane Muti a Giovanni Gavazzeni, quasi tutti arricchiscono le loro frasi con solenni iperboli sul grande teatro.
Questa sembra la linea che appare un po’ agiografica del progetto di Luca Lucini e Silvia Corbetta, che ha il difetto di offrire interviste con aneddoti piuttosto noti agli appassionati, ma che potrebbero non catturare l’attenzione dei neofiti. Invece inaspettatamente, superato lo choc iniziale dell’apparizione di Bebo Storti nelle vesti dell’impresario Domenico Barbaja – che «magari non sa cos’è un solfeggio ma la grande musica la capisce subito» -, le sezioni meglio riuscite sono quelle recitate, per il sense of humour. Ci si sposta persino nella cucina della moglie di Giovanni Ricordi, Marietta, mentre prepara un risotto e loda l’intuizione del marito di averle messo in casa un torchio calcografico per stampare le partiture, «che l’era brut!». Poi ecco l’ingegner Giuseppe Colombo, che nel 1883 ha illuminato la Scala di luce elettrica – c’era Gioconda di Ponchielli in cartellone – dopo aver costruito la prima centrale dell’Europa non isolana in via Santa Radegonda, quando i cinema multisala dovevano ancora nascere. Compare persino un giovane cameriere del Grand Hotel et de Milan, testimone nella stanza 103 della morte del maestro Verdi e dei suoi funerali. Frustratissimo, ecco anche il librettista Luigi Illica, costretto a rimpiangere tutti gli applausi che non ha avuto, commediografo ahilui molto meno talentuoso del suo celebre compagno di avventure pucciniane Giuseppe Giacosa.
Oltre che della Callas, nel docufim si parla molto di Toscanini; del suo ruolo nell’ampliamento del repertorio con Wagner; dei suoi dissidi con Puccini, che non fece entrare in teatro alla prima del Nerone di Boito, ma che poi salutò commosso interrompendo l’incompiuta Turandot dopo la morte di Liù; del suo ritorno dall’America nel ’46 per far risuonare Verdi e altri dagli altoparlanti sparsi per strade e quartieri ancora feriti, mentre la Scala con giusta urgenza era stata ricostruita dopo le bombe del ’43. E il maestro Muti, con deferente umiltà, si rifiuta persino di pensare al carico emotivo che lo investe quando calca il podio del grande direttore suo modello.
Elenchi e greatest hits di cantanti e direttori: il tempio dell’opera, in cui chi conta deve cantare e viceversa, come il santo per Socrate, che è santo perché è amato da dio ed è amato da dio perché è santo. Però ad esempio riesce a spiccare l’irresistibile ironia di Rajna Kabaivanska, che tra le sue braccia ha tenuto tutti i tenori – compreso Corelli, la «coscia d’oro della lirica» – e che, in un 7 dicembre di contestazioni animaliste, fu bersagliata da «uova rivoluzionarie» sul suo visone, il più importante contrassegno di una cantante.
Tra tutti questi divi c’è spazio anche per il dietro le quinte di Gino Salvi, discreto protagonista della Scala, da decenni addetto alla disposizione dell’orchestra in buca attraverso formazioni italiane e tedesche a seconda del direttore: questo lascia intravvedere interminabili discussioni sulle differenti tradizioni esecutive che non mi sarebbe dispiaciuto approfondire.
Molto interessante un’allusione di Francesco Maria Colombo sulla «scettica milanesità» del pubblico della Scala, che davvero potrebbe diventare un tema per un documentario sulle dinamiche sotterranee al mondo dello spettacolo. Così come, riguardo alla stessa questione, pesa il riferimento di Barenboim al «senso di cospirazione» che si respira in teatro, cui segue un gesto della mano verso il quinto e sesto ordine dei palchi, il temuto loggione.
Chiude il film una sezione scarna sulla danza, ma la voce narrante di tutto il film – Sandro Lombardi – non nasconde di essere in effetti un appassionato di opera: questo spiega probabilmente l’assenza di tanti musicisti non legati al teatro musicale. Almeno però si lascia spazio a Carla Fracci per parlare dei cinque giorni scarsi di prove per il suo debutto con Rudolf Nureyev nello Schiaccianoci nel ‘71.
Fa da cornice al tutto il Fidelio che ha inaugurato la scorsa stagione, buona scusa per ammirare di sfuggita gli spazi dell’Ansaldo in cui vengono costruiti gli allestimenti, e per vedere l’in bocca al lupo del nuovo sovrintendente Alexander Pereira al vecchio direttore musicale Daniel Barenboim prima che entri in buca.
Insomma manca ancora un film non patinato sulla Scala di oggi, perché non ci si stacca dalla venerazione e dalle troppe cautele, quando invece il teatro potrebbe ridiventare vivo protagonista come era stato per esempio con Lattuada nel ‘73 in Sono stato io o con Gallone nel ‘54 in Casa Ricordi – dove però gli interni erano stati ricostruiti.