In teatro il monologo non passa mai di moda: a Milano due spettacoli di punta sono recitati solo a una voce
Perrotta: fango, sudore e polvere da sparo
Il Piccolo Teatro Studio di Milano si trasforma in un campo di battaglia metaforico, una trincea popolata dai protagonisti della Grande Guerra che nelle parole di Mario Perrotta tratte dal testo Avanti sempre di Nicola Maranesi fanno rivivere i momenti cupi, le paure, le speranze, le convinzioni, le domande e le lotte di quei protagonisti che nel 1915 diedero le loro vite per una causa imposta dall’alto, forse non compresa o non voluta, ma vissuta con grande umanità giorno dopo giorno.
Il monologo di Perrotta è una lunga narrazione incarnata: si materializzano le sensazioni, le emozioni e le relazioni dei molteplici personaggi, ciascuno con il suo dialetto, la sua cultura e le sue idee nella recitazione dell’attore che scambiando continuamente le voci dei soldati che parlandosi ci restituiscono la memorie di un reduce consapevole di ciò che ha vissuto, e ci proiettano nel passato di un’Italia giovane, che all’inizio del Novecento si impegnò piena di fragilità e dubbi contro un nemico comune.
Seduto come il monumento ad un milite ignoto su un gruppo di sacchi, Perrotta ritma con voce e gesti ricordi di vite che oggi sembrano ormai lontane: si materializzano dunque il generale Cadorna e le sue disposizioni intellettualistiche, il prete che da ambo gli schieramenti benedice i soldati, il freddo delle trincee invernali, i pidocchi, i compagni che si incitano a vicenda, le esplosioni e gli spari provocatori, descrivendo tutte le immagini di un momento storico celebrato dalle voci e dalle esperienze racchiuse nei cuori e nelle menti di chi partecipò attivamente al primo conflitto mondiale, provenendo da regioni diverse ma tutti accomunati da esperienze e destini condivisi.
Perrotta punta molto sul corpo e su una scena che non chiede molto, qualche cambio luce ma nessun oggetto o spostamenti particolari: è il testo che parla con evocazioni forti e omaggia un fervore giovanile che fece la storia d’Europa e della nostra cultura. Le critiche alla guerra sono rivolte a chi la decise, gli elogi a chi seppure non totalmente consapevole vi partecipò sacrificando la propria vita.
Il ritmo è quello incessante e frenetico dell’esaltazione prima della battaglia, delle esplosioni e degli attacchi, dei dubbi e dei silenzi, delle attese, delle sofferenze e degli impedimenti della vita in trincea.
Si percepisce il fango e il sudore dei soldati, quanto la leggerezza dei momenti più lievi e la pesantezza di quelli più luttuosi, ora di un giovane combattente ora di un vecchio soldato che ricorda il suo passato.
Perrotta riesce a condensare uno spaccato di umanità dimenticata, appartenente ad un’epoca lontana a cui il presente, debitore di un valore ancora non estinto, può rendere grazie e commemorare con l’attenzione che si presterebbe a un uomo vissuto e anziano le cui parole, scolpite in nella memoria, hanno ancora molto da raccontare.
Al Piccolo Teatro Studio Melato fino al 20 novembre 2016
Bergamasco alle prese con le crisi dei 30…
Chi lo dice che la crisi di mezz’età arriva tra i quaranta e i cinquant’anni? Non certo Ingeborg Bachmann che con il suo splendido racconto Il trentesimo anno (inserito nell’omonima raccolta del 1961) narrava le vicissitudini picaresche di un giovane uomo alle prese con il primo bilancio del proprio vivere. Uno di quei momenti dove il senso di ogni cosa sembra evaporare: l’immagine di sé si sclerotizza in forme chiuse – spesso non quelle sperate – e la rete dei ricordi ti intrappola quando meno te lo aspetti. Niente è più revocabile: è giunto il terribile momento di mettere da parte le belle speranze e (di)mostrare al mondo intero ciò che si è davvero capaci di fare e di pensare.
Un problema che Sonia Bergamasco sembra aver superato brillantemente da tempo, e non solo per questioni anagrafiche – i suoi anni, per inciso, se li porta benissimo – ma anche perché nel corso della sua carriera continua a dare prova su più fronti delle sue abilità: dal diploma in conservatorio alle apparizioni televisive, dal cinema al teatro. Una “polifonia” che mostra insieme a una certa acquisita sicurezza – che le ha permesso di concedersi senza remore perfino al pubblico mainstream di Checco Zalone in Quo vado? – un’evidente aspirazione a ricoprire all’interno dello star-system teatrale un ruolo di intellettuale a tutto tondo.
Un’attitudine condivisa e portata avanti insieme al compagno di vita Gifuni, con il quale è riuscita, nel corso delle ultime stagioni, a dare nuovo lustro e vitalità a un genere colto, spesso guardato con sospetto dalle platee, come quello del reading letterario. Ed è proprio in questo filone che si inserisce la trasposizione scenica del racconto della Bachmann che la Bergamasco, sola sul palco di fronte a un leggio, sceglie di affrontare seguendo quasi alla lettera la lezione di uno dei suoi maestri, Carmelo Bene. Tutto sembra infatti sottomesso a una dirompente quanto ingombrante phoné interpretativa e a quella enunciazione straniata (e straniante) tipica della macchina attoriale teorizzata dall’attore salentino.
Anche il gesto e la mimica seguono, naturalmente, lo stesso principio d’alienazione: la Bergamasco, perfettamente immobile all’ingresso del pubblico, si rivela man mano marionetta meccanica dai gesti aspri, secchi, perentori. Un’oltre-attrice (über-schauspielerin) la cui partitura espressiva dissonante trova un’inaspettata corrispondenza nel testo della Bachmann in quel lirismo disorientante (linguistico, temporale, prospettico) che altro non è se non il tentativo di reificare un’irrequietezza, un dissidio interiore tipicamente romantico: anelare all’assoluto dovendo però fare i conti con i propri limiti di umanità.
Sta infatti in una presa di coscienza “identitaria” il superamento della crisi e l’accettazione di sé da parte del protagonista del trentesimo anno. Un obiettivo che sembra raggiunto anche dallo spettacolo della Bergamasco, ben consapevole di essere operazione intellettuale prima che forma teatrale accessibile a tutti. Ma se sull’elitarismo si potrebbe chiudere un occhio, meno indulgenti si riesce ad essere su altri versanti a cominciare dalla mono-tonalità manierata e di gusto retrò portata avanti dall’attrice, che rischia di farsi presto monotonia. Il pericolo è dunque – parafrasando la Bachmann – quello di interrompere la comunicazione anche con la parte di società (e di pubblico) ben contenta di non sottrarsi “alla poesia quando i suoi contenuti diventano seri e scomodi”, e di fare di questa lettura-fiume un raffinato quanto improduttivo esercizio di stile.