Né maschio né femmina, né bella né brutta, come si mette una formula sul palco? Lezione di fisica a teatro, con personaggi intersex senza battute…
Né maschio né femmina, né bella né brutta, come si mette una formula sul palco? Lezione di fisica a teatro, con personaggi intersex senza battute e senza storia, al massimo tracciati nel nero dell’ardesia con di fronte Lavia, Galileo sconfitto – ma trionfante al Carignano – a protestare contro «l’intimidazione dei potenti egoisti».
Ma l’epica di Brecht, che insegna ai radicali e bacchetta gli indecisi, è solo un meraviglioso parziale esempio di come si mette in scena la scienza. Il peso e privilegio della divulgazione d’avanguardia se lo prendono in questi giorni fino al 14 marzo il Teatro Libero con Il principio dell’incertezza e il Filodrammatici con Costellazioni. I quanti ectoplasmatici seguiti fino alle conseguenze più estreme, ma a partire da un’origine che in effetti lascia ancora senza fiato i non addetti ai lavori, e forse anche qualche addetto. «La filosofia nasce grande» sentenzia Severino, novello Orazio – non il poeta -, perché in fondo vale sempre la replica che in cielo e in terra ci sono ancora più cose.
E a proposito di Amleto Heisenberg racconta di una passeggiata con Bohr in cui si finì proprio al castello di Kronborg. «Noi siamo scienziati e siamo convinti che i castelli siano fatti essenzialmente di pietre. Né pietre né tetto né legno mutano per il fatto che Amleto sia o meno stato qui; eppure questa consapevolezza cambia completamente il castello». Solo suggestioni, ma che incrinano il razionalismo e stabiliscono un ponte tra discipline. Ambiti separati, ma separati in casa: l’architetto progetta, l’ingegnere assembla e quando termina cede il posto al poeta, che continua a costruire.
Gli stessi Bohr e Heisenberg discutono di fissione nucleare in Copenhagen di Michael Frayn, portata in Italia da Mauro Avogadro con Orsini e Popolizio sul ring della scena in pieno Terzo Reich. Oltre un decennio di repliche e un titolo che rimanda alla prima scuola che tentò – e riuscì – a interpretare le torrenziali conseguenze di un nuovo modo di vedere la realtà. È quasi sempre stato così: il fisico usa un concetto prima che il matematico gli dia il permesso. È il suo diritto alla rivoluzione, direbbe Thoreau. A cose fatte il mondo è già cambiato e ci si può ritrovare in tutta calma a sistemare il pasticcio.
Ma fisici sul palco sono anche quelli di Dürrenmatt, svizzero non privo di senso dell’umorismo che immagina un incontro in sanatorio tra due matti che si credono Einstein e Newton. La posta in gioco è la formula universale per ogni scoperta, che sarà distrutta perché troppo pericolosa, come l’ordigno di Zeno che trasformerà la Terra in nebulosa, finale di una partita che non può essere progresso ma solo «un progressivo allontanamento dall’umanità» – ancora e sempre Brecht.
Infine a teatro c’è anche la fisica che non ha bisogno di scienziati e nemmeno di una trama. È la fisica che rappresenta se stessa, quella di Infinities, il cui contenuto è contemporaneamente argomento e metodo. «Uno spettacolo che voleva uscire ed è uscito da ogni confine del teatro canonico» ricorda John D. Barrow, autore del testo messo in scena da Ronconi.
Parole confermate dal ritornello dell’installazione su Ronconi nello spazio RovelloDue: Infinities coinvolge spazio, tempo e parola. Lo spazio perché violenta le frontiere, e per uno spettacolo si corre anche ai bordi di Milano, in Bovisa, perché non inizierà in ritardo anche se a volte il tempo può rallentare; e appunto il tempo fa scherzi perché ha perso ogni direzione: così cinque, infiniti paradossi ci tormentano e malgrado ciò continuiamo a esistere, o come disse Proust – che accarezzava il tempo – ogni malgré può diventare un parce que e sarà proprio questa eternità a farci sopravvivere; infine cucitura di tutto è la parola, con quella pastosa circolarità del declamato di ogni attore, che non è personaggio né lo sarà mai più, solo concreta teoria, puro atto scenico.