Scorrendo la lista dei teatri a Milano in questo periodo, esauriti per ora i Vizietti dell’arte all’Elfo Puccini tra Britten e Auden in una magnifica…
Scorrendo la lista dei teatri a Milano in questo periodo, esauriti per ora i Vizietti dell’arte all’Elfo Puccini tra Britten e Auden in una magnifica prova meta teatrale, è forte la presenza di spettacoli imperniati civilmente sulla disputa gender, sui temi omo, sulla questione poco gaia dei diritti gay, sulla coabitazione non sempre così pacifica fra i tre sessi e la sempre posticipata pace dei sensi (al massimo un armistizio, pace mai).
Uno per tutti il classico La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams, 1955 (cult il sudato film di Brooks che vedeva sfidarsi la gatta Liz Taylor e Paul Newman), in cui viene oggi inserito nella storica traduzione di Guerrieri il termine cordialmente offensivo ormai d’uso, “frocio”, sconosciuto ai tempi del debutto della commedia: allora la borghesia usava la parola vintage “invertito”, che risuona infatti nello Sguardo dal ponte di Miller con Somma al posto di Stoppa, star nella storica edizione di Visconti in cui Corrado Pani era biondo quindi sospetto. “La gatta” andò in scena nello stesso teatro dove è ora, il Manzoni, nel gennaio ‘58 con Lea Padovani in fruscio di sottoveste, Gabriele Ferzetti con stampella e whisky, Gino Cervi, padre malato, ricco, macho sudista, diretti da Raymond Rouleau (oggi sono rispettivamente Vittoria Puccini, il bravo Vinicio Marchioni, Paolo Musio diretti da Arturo Cirillo): inutile dire che il presunto scandalo del marito che vive una trasgressiva passione nascosta per l’amico sportivo defunto, è assolutamente rientrato, con buona pace dei rovelli dell’autore che con Vidal e Capote formò la grande trinità letteraria gaya americana.
Scorrendo titoli vecchi e nuovi si trovano le inaspettate Confessioni di trans (poche recite al Parenti, dopo le ore 22, sempre sold out, coordinatrice Marcela Serli), la storia della donna diversamente etero (testo italiano al Filodrammatici), Cock dell’inglese Mike Bartlett (in italiano sarebbe l’usatissima parolina con le due zeta con Fabrizio Falco perno di un mènage a tre come quello di Domenica maledetta domenica). Perfino nella sala legata alla ricca parrocchia del centro, al san Babila, un tempo ritrovo di non più giovani signore timorose e sempre raffreddate tossicchiose con caramella, Il marito di mio figlio di Falleri espone mamma Eva Grimaldi, ex di Gabriel Garko, e il papà Andrea Roncato di fronte al problema in divenire (speriamo domani risolvibile) della step child adoption, l’articolo 5. Ed è il tema anche di Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata, nome di punta molto irrispettoso e talentuoso del teatro off, novità che si vedrà a Castrovillari in primavera, al festival di Saverio La Ruina, poi alle Colline Piemontesi indi Genova e l’anno venturo in tournèe ad accendere dibattiti catto dem e cinque stelle. Il testo del siciliano Granata vede protagonista il lanciato e ottimo Angelo Di Genio (che ha portato al successo il monologo di Road movie su un amante perduto in cerca del compagno), figlio di una coppia gay che adulto si lamenta col padre rimasto (l’altro, biologico, è morto) sulla sua vita sfortunata e priva di elementari diritti.
Seriamente il problema viene trattato per la prima volta anche completo di dubbi, per accendere in teatro la miccia di discussioni d’attualità. Certamente il teatro con argomenti gay è passato traverso molte ere, cominciando dall’Edipo che è il caposaldo di tutto, freudianamente e amleticamente parlando anche se Latella ci ha ricordato che l’origine etimologica della parola è meno affascinante: Edipo vuol dire che ha piedi gonfi (crolla il complesso e si trascina dietro tutta la psicanalisi). Dimenticando Sofocle, passiamo con azzardo temporale ai graziosi travestimenti dello specialista sir William Shakespeare, dove è raro non trovare qualche bisessualità sparsa.
Con un altro salto mortale passiamo a quei melò, figli di un certo cinema per signore (i mariti erano in guerra) degli anni 40, soprattutto di Tennessee Williams in cui le eroine erano sempre preda di maschi dubbiosi sulla propria identità sessuale: dolci ali della giovinezza, tram chiamati desiderio, gatte già citate, notti dell’iguana, zoo di vetro e cannibalismi omofobi pasoliniani di Improvvisamente l’estate scorsa. Cambiato col ’68 il comune senso del pudore, combattuta la storica battaglia di Stonewall (la Alamo omosex), ecco gli ultimi fuochi della tendenza alla solitudine e alla redenzione (meglio se con morte) del peccatore popolo omosessuale a Manhattan: la assai malinconica Festa del compleanno del caro amico Harold, Le lacrime amare di Fassbinder e delle sue donne infelici almeno come quelle di Williams; e la pièce ibseniana coniugale di Quei due che i mattatori rigorosamente eterosessuali Stoppa e Ricci recitarono davanti a platee vuote e stupefatte nei primi anni 70 ed ora viene riproposta da Massimo Dapporto e Tullio Solenghi (idem come sopra).
E poi salto doppio, Hair con i suoi nudi e le sue prediche libertarie libera e salva tutti, tanto che si arriva alla glorificazione della Cage aux folles, la popolarissima pochade francese da noi intitolata non senza genialità Il vizietto e recitata più volte in forma di prosa e di musical (Pandolfi, Reali, Dorelli, Villaggio, Iacchetti, Ghini altri ed eventuali).
D’ora in poi tutto è lecito e possibile, virando sul grottesco: sarà l’apparizione nelle cliniche del virus del’Aids a riportarci indietro con sospetto malsano di punizione biblica e nasce qui il bellissimo Angels in America di Tony Kushner recitato in Italia dall’Elfo di De Capitani, Bruni e soci al gran completo, ma troppo costoso ed affollato per essere ripreso oggi come molti affezionati “elfiani” chiedono. E da qui al Bennett di History boys il passo è abbastanza breve e cerca di colmare le lacune anche d’entertainment.
Immagine di copertina di Manuel Scrima (Road Movie, Teatro dell’Elfo)