Parla di pena e coinvolge gli spettatori. Ma soprattutto è teatro che scardina la separatezza del carcere.Un piccolo viaggio dentro e fuori quelle mura
Teatro in carcere o carcere in teatro? Ha quasi il sapore del dubbio amletico la domanda che affiora, assai legittimamente, dando un’occhiata al palinsesto teatrale delle ultime settimane milanesi. Mai come in questo periodo sembra esserci stata una concentrazione di rappresentazioni in cui l’universo carcerario non si limita ad essere argomento di trattazione, ma diventa soggetto attivo, capace di offrire proposte culturali all’interno degli istituti così come di ‘contrabbandarle’ in alcuni dei teatri più importanti della città. Facciamo i nomi: Santo Genet della compagnia della Fortezza in scena al Tieffe Menotti, San Vittore Globe Theatre al Piccolo Teatro Studio Melato, Che ne resta di noi presso la casa circondariale di Bollate, Antigone per Opera ( foto in alto) nella casa di reclusione di Opera. E la lista potrebbe continuare.
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Un fenomeno in espansione di visibilità dunque, capace di calamitare la considerazione degli addetti ai lavori e, cosa più importante, quella del pubblico. Tuttavia questa impennata di attenzione, ci ricorda Michelina Capato Sartore, anima della cooperativa Estia attiva da anni nel penitenziario di Bollate, non è priva di contraddizioni: «Se è vero che oggi, rispetto a 15-20 anni fa, esiste una disponibilità maggiore ad offrire spazi culturali dove proporre i nostri spettacoli, a questo non corrisponde un vero sostegno (economico, progettuale, politico). Ciò accade non perché ci sia per forza malafede, ma perché il paese si trova in un periodo di grandi difficoltà, tanto che ‘offrire spazi’ diventa una delle poche forme di compensazione possibili».
E se la questione dei finanziamenti alle carceri e dei costi di gestione dei detenuti è all’ordine del giorno (è di domenica scorsa il servizio di Report sull’argomento), è proprio attraverso l’esperienza teatrale che a Bollate, pur potendo contare sull’appoggio di enti come Fondazione Cariplo, si è cercato di raggiungere una certa autarchia. Oltre a rivelarsi caratteristica indispensabile per poter garantire continuità ai progetti artistici, l’attitudine ad essere “compagnia che si procaccia lavoro” ha generato effetti collaterali benefici, a volte insperati.
«Nel corso del tempo – racconta sempre la Sartore – la nostra cooperativa si è trovata a sviluppare una falegnameria, un corso di formazione per tecnici luci, un altro per fonici; abbiamo addirittura trovato delle case dove ospitare gli ex-detenuti per qualche tempo: la nostra è diventata una vera compagnia all’antica dove spettava al capocomico garantire a tutti vitto e alloggio. Quel che si cerca di costruire è, in parole povere, una realtà che sia un lavoro: non è un caso se la recidiva diminuisce notevolmente dove c’è un percorso teatrale solido».
Teatro come rieducazione? Come riabilitazione? Ancora meglio: teatro come responsabilizzazione e indirizzamento verso un’attività lavorativa, per far sì che il carcere, guardandosi allo specchio, si possa vedere istituto e non semplicemente galera. Non si tratta di retorica, piuttosto di fatica: quella del personale penitenziario che si amalgama a quella di associazioni, cooperative e compagnie. Tutte realtà, queste ultime, spesso costrette a lavorare a progetto (un singhiozzo alimentato da finanziamenti interrotti, fondi non sempre stanziati), in situazioni dove instabilità, incertezza e complicazioni di ogni sorta più che alternarsi si assommano. A questo impegno se ne aggiunge poi uno ulteriore. Benché i propositi, per così dire, socio-terapeutici costituiscano, in numerosi casi, l’obiettivo primario di laboratori, corsi e insegnamenti, esistono esperienze che orientano il proprio percorso a finalità pienamente artistiche.
Gli esiti, è sottointeso, sono variabili. Tuttavia i risultati recenti (e meno recenti) di Armando Punzo e della Fortezza di Volterra sembrano mostrare come «giocare tra significato e significante, considerare cioè il carcere come un luogo da cambiare di segno, come realtà teatrale a tutti gli effetti», possa essere la via migliore per raggiungere l’eccellenza artistica. È meglio specificare: non si tratta semplicemente di ragionare secondo il principio ‘l’arte per l’arte’. Nessuna ostentazione di purezza e neppure un oltranzismo ottuso che renda l’espressione tipica dell’estetismo rigida quanto quella del taglione (occhio per occhio). La questione, spiega Punzo, riguarda semmai la convinzione che “puntare sul teatro in quanto tale implica benefici importantissimi anche sul versante rieducativo. Fare assegnamento, viceversa, su una forma ibrida, una rieducazione che sia di stampo teatrale, significa spesso ottenere risultati insoddisfacenti in entrambi gli ambiti”. «Il nostro lavoro – conclude – non deve assecondare pedissequamente i mandati delle istituzioni ma mira a costituirsi come un contraddittorio costruttivo che le assista, quindi, nel vero senso del termine. Scardinare ogni retorica sulla separatezza: questo è il nostro obiettivo».
Questa interazione diretta tra il dentro e il fuori di cui parla colui che, a ragion veduta, è considerato l’apripista di un teatro che valica il contesto carcerario per diventare reale mezzo di condivisione, trova eco in altri due progetti. Il primo, milanese, è quello di Prova a sollevarti dal suolo, rassegna di teatro-carcere della casa di reclusione di Opera, aperta a un pubblico misto di detenuti e civili, nonché bel tentativo di creare network attraverso ospitate e collaborazioni. Il secondo è quello di Ognuno ha la sua legge uguale per tutti, spettacolo-esperimento della compagnia Teatro e Società che è riuscita a unire i reclusi della casa circondariale di Torino con gli studenti del dipartimento di Giurisprudenza dell’università del capoluogo piemontese. Per sfuggire logiche di facile giustizialismo e riflettere sulla differenza che intercorre tra legge e norma morale/sociale, carcerati e studenti ascoltano gli uni il punto di vista degli altri dando vita a una specie di agone tragico. Un incontro inusuale che ci ricorda, ancora una volta, che un detenuto è anche frutto della collettività che lo ha generato e perciò responsabilità comune. Anche in questa circostanza, è bene sottolinearlo, galeotto fu il teatro.