“La tenerezza”, nuovo lavoro del regista calabrese, è una delle più belle scoperte di questo inizio 2017: equilibrato, ben scritto, visivamente forte e benissimo recitato da un cast in cui spiccano il protagonista Renato Carpentieri e le due ottime partner Micaela Ramazzotti e Giovanna Mezzogiorno, più Maria Senatore e Greta Scacchi. “Lasciami per sempre”, ritorno alla regia di Simona Izzo dopo dieci anni, è invece una commedia corale, un po’ televisiva, con al centro una famiglia super-allargata e disfunzionale: un coacervo di classici parenti-serpenti, riunito da mamma Barbora Bobulova per “festeggiare” il 20° compleanno del tormentato figlio Lorenzo, chè darà il meglio e il peggio di sé.
Non so se alla base ci siano state ragioni produttive o scelte diverse dei realizzatori, ma trovo francamente incomprensibile l’assenza da un festival di prima grandezza, da Berlino a Cannes, di un film del livello di La tenerezza, senza voler nulla togliere al Bari International Film Festival, una rassegna senza dubbio in ascesa, che l’ha ospitato per la sua apertura nei giorni scorsi. Perché il nuovo film di Gianni Amelio è senza dubbio una delle più belle scoperte, soprattutto nel non floridissimo campo italiano attuale, di questo inizio 2017. Difficile vedere un’opera così ben equilibrata nella profondità e nell’armonia della scrittura, nel bilanciamento degli umori e degli stili di recitazione, nella varietà e nella sapienza di modulazione delle soluzioni visive. E, detto più semplicemente, nella capacità di interessare, avvincere, commuovere.
Il testo nasce dalla riscrittura di un romanzo, La tentazione di essere felici, del 43enne (quindi abbastanza anagraficamente lontano dal regista, e questo spesso conta nei rapporti libro-film) autore napoletano Lorenzo Marone. “Me l’hanno proposto”, ha raccontato Amelio, “poi però io ho scritto un’altra cosa, come del resto avevo fatto già con Sciascia (Porte aperte), Pontiggia (Le chiavi di casa), perfino con Camus (Il primo uomo)”. E non c’è dubbio che questo racconto sia diventato suo al 100%, “in tutto e per tutto una storia mia. Ma si può anche dire che sia una storia che mi appartiene e non mi appartiene”. Una duplicità che sullo schermo appare non come una complicazione, ma al contrario come una ricchezza, una moltiplicazione di temi e punti di vista.
Poi c’è un immensa prova d’attore, quella di Renato Carpentieri, che davvero usa ogni sfumatura e sa dosare al meglio gesti, pause e accelerazioni nel raccontare una breve e intensissima stagione nella vita del diffidente e brusco Lorenzo, un distinto uomo d’età che ha alle spalle il suo tradimento e poi la morte drammatica della moglie, la rottura quasi definitiva con i figli (la tormentata Elena, interpretata con intensità composta, quasi rassegnata da Giovanna Mezzogiorno e l’insensibile Saverio, cui dà un volto sgradevole e freddo Arturo Muselli), e vive ora con struggente avidità il legame col nipotino, quasi la sua unica ragione di esistenza. Scampato a un male che sembrava inesorabile (ma poi ritornerà…) si trova di colpo e causalmente a contatto, perché diventano suoi vicini di casa, con l’irresistibile vitalismo di Micaela (una Ramazzotti molto convincente e senza eccessi), il tenebroso tormento esistenziale di Fabio (Elio Germano, alle prese con il ruolo forse più difficile e difficile da amare, per il pubblico) e il disarmante abbraccio dei loro due piccoli figli.
Sembra un nuovo inizio, una “nonnitudine” acquisita ma finalmente serena, finché una svolta tragica darà vita alla seconda parte, cupa ma non senza speranza, del film. Che, coerentemente con la materia cangiante che è impegnato a mostrare, muta radicalmente la sua forma passando da un primo atto, quasi in senso teatrale, in cui prevale una Napoli esterna, solare, colorata, percorsa nella piena luce del giorno da Lorenzo, per precipitare nel secondo tempo (per dirla come nei vecchi film) in un abisso notturno fatto di angoscianti sale d’attesa d’ospedale e aule di tribunali (Elena è traduttrice in processi a immigrati, forse scafisti). Tutto diventa buio e le case diventano gelide, anche cromaticamente, battute da una pioggia che sembra lavare via ogni sentimento positivo.
“È in momenti di tragedia come oggi, in cui siamo bombardati da così tanti problemi che c’è bisogno di dare e ricevere tenerezza”. Meglio di chiunque è ancora Amelio a spiegare il titolo della sua opera, e la tenerezza qui c’è qui davvero in tutti, anche nell’egoismo scostante e all’apparenza inattaccabile della vecchiaia e nell’incomprensibile mostruosità di chi decide di dare la morte a sé e alle persone che più ama. La tenerezza è una storia di sentimenti inquieti, tra padri e figli, fratelli e sorelle: in cui in cui accadono anche tragedie estreme, ma senza una separazione netta tra buoni o cattivi. Ci sono solo, per citare il regista, “esseri umani che non ce la fanno a crescere sui propri errori, anche quando la vita sembra metterli al riparo e invece rende ogni loro gesto azzardato. È un film che cerca le ragioni di ogni personaggio attraverso i suoi comportamenti, anche crudeli, chiusi nel loro mistero”. In cui convivono, come nella vita reale accade, l’amore e la paura di non essere amati, e di non saper amare nel modo giusto per troppo amore o per aridità, senza mai trovare un punto di equilibrio.
In una Napoli contemporanea borghese, di solito assente, perché ampiamente oscurata sullo schermo dai racconti di camorra o degrado, fatta di persone con belle case e professioni tutto sommato accettabili, senza grandi problemi economici eppure rose da un tarlo che potrebbe distruggerle dal di dentro, si ambienta il primo film, chiosa infine Amelio “in cui il protagonista ha la mia stessa età. Ma non per questo La tenerezza è in prevalenza autobiografico. Forse è un atto di fiducia che rivolgo a me stesso, ma anche agli altri, quello di vivere i nostri anni difficili sbagliando per debolezza, non per scelta: ostinandosi a voler bene, nonostante tutto”.
La tenerezza, di Gianni Amelio, con Renato Carpentieri, Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti, Elio Germano, Maria Nazionale, Greta Scacchi, Arturo Muselli
parenti-serpenti nella grande abbuffata disfunzionale
“Se amarsi per sempre è difficile, lasciarsi per sempre lo è ancora di più” recita la frase di lancio del ritorno alla regia di Simona Izzo, a dieci anni da Tutte le donne della mia vita. E quando in Lasciami per sempre si parla di una famiglia super-allargata e disfunzionale, dove la parola d’ordine è “caos”, dentro e fuori, tutto si eleva al quadrato, anzi al cubo. E la commedia corale diventa un vero e proprio “mucchio selvaggio”.
A partire dalle premesse. Per il 20esimo compleanno del tormentatissimo figlio Lorenzo (Andrea Bellisario), Viola (Barbora Bobulova), che fa la creatrice di profumi, decide di riunire per un pranzo tutti i parenti che, ovviamente, si riveleranno più serpenti che mai: dall’ex marito Davide (Vanni Bramati), uno skipper solitario e scontroso, al nuovo compagno musicista Nikos (Max Gazzè). E poi le sorelle Aida (Valentina Cervi) e Carmen (Veruska Rossi): la prima sposata con una donna che vuole un figlio, la seconda bipolare e stravagante mamma dell’inquieta Giulia (Camilla Calderoni) e separata da Pietro (Maurizio Casagrande), ginecologo e traditore seriale. Completano il quadretto Renato (Mariano Rigillo) il padre delle tre sorelle reduce da un tentativo di suicidio, Martina (Myriam Catania) innamorata di Lorenzo con riserva, Yuri (Marco Cocci) brillante fisico teorico nonché primo amore di Aida e Sean (Sean Cubito), il figlio ribelle di Nikos appena arrivato dal Canada.
Come avrete capito, la trama è a dir poco complicata. Anche perché tutto nel film è improntato all’eccesso: la gran quantità di tematiche (dall’omosessualità ai disturbi alimentari), di personaggi e situazioni, travolgono e – un po’ tramortiscono – lo spettatore. Ma questa esuberanza è il marchio di fabbrica della Izzo: tanto di tutto, piaccia oppure no. Anche la sceneggiatura a tratti risulta “troppo” e si lascia andare a qualche passaggio davvero poco credibile.
Le performance degli attori, cui è stato chiesto di improvvisare parecchio (non sempre con buonissimi risultati) sono in molti casi volutamente sopra le righe. Dopo l’esordio in Basilicata coast to coast, dove interpretava un falegname con la passione per le note che si esprimeva solo attraverso il suo contrabbasso, a mantenere l’equilibrio nella recitazione e nella storia (insieme alla Bobulova) è senza dubbio Max Gazzè, che con sensibilità e grazia dà corpo, ma soprattutto anima, al suo personaggio, un musicista in crisi innamoratissimo della propria compagna. E ci regala anche il brano-tema della pellicola, Sul fiume, tratto dall’album Maximilian, del 2015.
Fin dalla prima sequenza, quella dei titoli di testa – con qualche dissolvenza, luogo comune e pretesa evocativa di troppo – il film ha un’impronta e un ritmo forse più televisivi che cinematografici. E se il sotto-clima da melò è giustificato dai nomi delle tre sorelle, presi in prestito dall’opera lirica, l’obiettivo è pur sempre quello di costruire una commedia sulla dis-armonia familiare. Perché “alla fine meglio uno straccio di famiglia che niente!”, come afferma uno dei protagonisti. Ma, a volte, quando è troppo è troppo.
Lasciami per sempre di Simona Izzo, con Barbora Bobulova, Max Gazzè, Andrea Bellisario, Valentina Cervi, Veruska Rossi, Vanni Bramati, Mariano Rigillo, Myriam Catania, Marco Cocci, Sean Cubito