Autofiction dalla trama zoppicante, cucito sui traumi presunti di un mondo di apparenza dorata: il nuovo romanzo di Teresa Ciabatti, pubblicato per Mondadori, va in finale al Premio Strega.
«Fammi essere come tutti, una miliardaria come tutti, mamma».
Duro essere una pariolina bruttina, i traumi devastanti dell’adolescenza sono in agguato e la vita adulta sarà tutta all’insegna della rivalsa. Tenetevi forte, la scena primaria è in agguato.
«Qualcuno potrebbe obiettare che sono passati troppi anni per serbare rancore.
E allora io – sempre nella fantasia – raddrizzo le spalle, schiarisco la voce, dico no. Impossibile dimenticare, dico. Come cancellare il momento in cui candidata a rappresentante di classe contro due emarginate, sicura di vincere, sulla lavagna vicino al mio nome non compare alcuna x?».
Sono cose che segnano: e come diceva Oscar Wilde, bisogna avere un cuore di pietra per non scoppiare a ridere. Per molto meno, essere stato tolto dalla scuola a sei anni e mandato a pascolare le pecore, il Gavino Ledda di Padre padrone ha rischiato di diventare un cannibale o il mostro di Milwaukee.
Teresa Ciabatti (il suo io narrante rigorosamente in prima persona e ovviamente inattendibile, che forse è lei e forse non è lei, ma “questa è una storia vera”, non dico il nome del bar dove ho fatto sesso nel cesso per privacy) si vendica diventando una scrittrice di successo e facendola pagare ai lettori con questo pappone insulso in gara per lo Strega.
Un passo indietro, la trama. La protagonista è appunto una scrittrice quarantasettenne, forse sul viale del tramonto, che gira come una trottola per promuovere l’ultimo romanzo: riflettori, autografi, finzioni, che fatica fare la diva. Il successo nella professione è l’ultima cosa che le resta: il marito, che lei ha tradito per anni, l’ha lasciata per un’altra donna. E la figlia ventenne (che si chiama Anita come la figlia vera della Ciabatti, dieci anni) la evita, non le rivolge quasi più la parola, e per farle dispetto va in tv a Caduta libera di Gerry Scotti, dove finisce anche per vincere.
In tanto sfacelo si rifà viva Federica, l’amica del cuore dell’adolescenza. Era bruttina come lei, grassoccia, impacciata (ma sarà vero?, forse non era proprio così), faceva tappezzeria nelle feste, invidiando la sorella maggiore Livia bella, bionda e dai molti amori. Le univa la frustrazione per tutti quei simil Brad Pitt da liceo che preferivano la sorella. Anche qui “Scrittrice di Successo” non dimentica:
Nei letti, sotto maschi eccitati, io vedo loro, tutti loro che non mi hanno mai amata, imprimendo sulla mia persona fragile un marchio.
E il trionfo adulto non la consola:
Se avessi vent’anni. Se il successo fosse arrivato a vent’anni mi sarei ubriacata, drogata, avrei illuso ragazzi, usandoli per brevi periodi allo scopo di accrescere la mia vanità. Sarei stata rincorsa da giovani maschi. Tutti a desiderarmi.
Ma la vendetta è un piatto che si gusta freddo, e arriva.
La bella Livia dalle tette perfette, desiderata da tutti, è una cinquantenne con la testa della diciassettenne che era. Quando aveva tentato il suicidio gettandosi dal balcone della sua stanza ed era sopravvissuta con il cervello leso.
“Scrittrice di Successo”, in assenza di Federica che è tornata a Genova, si prende cura di lei, le fa incontrare il vecchio moroso figaccione al quale forse ha rovinato la vita (brutta fine, panzone malinconico, forse etilista, senz’altro solo: così impara). Livia scappa assieme al figlio bambino di lui, angoscia e inseguimenti, ma alla fine li ritrovano allo zoo che danno noccioline alle scimmie. E anche la figlia di “Scrittrice” è sana e salva, dopo tante ansie e dopo il quiz a Mediaset (e che cosa poteva accaderle? Al massimo affiancava Gerry in uno spot sul riso Scotti). “Scrittrice di Successo”, rappacificata, dice in finalino edificante che vuole scrivere per impedire alle ragazze di gettarsi di sotto. Se scrivesse anche per impedire ai lettori di farsi venire la tentazione, dopo aver finito di leggere, sarebbe meglio.
Ciabatti scrive mediamente male, non peggio di tanti e di tante, ma essendo autrice di buone vendite e personaggio pubblico che fa simpatia, gli editor non intervengono. E approda indenne sulla pagina un incipit sgangherato come: La donna nella foto subiva la violenze del padre. Aggressivo, collerico, era con lei che sfogava la rabbia, così la definivano in famiglia dove tutti sapevano, e nessuno si ribellò. Passa una generazione, e il figlio minore lo racconta alla moglie che lo racconta alla figlia, me.
Passano senza interventi locuzioni come un paese di provincia o, sempre lo stesso luogo, un paese di campagna.
Un romanzo figlio delle narrazioni di massa corrive che ci assediano. Del porno in rete quando parla di sesso (non è una notazione perbenista: da grado zero della narrazione, il nudo atto e basta); dei reality e del modo televisivo di “pettinare” le storie nel porgere le vicende; del copia-e-incolla dei social nel costruire i personaggi (Livia è un calco spudorato ed esibito della sorelle Lisbon delle Vergini suicide di Jeffrey Eugenides: la bionda Lux che è Livia sputata, nella biondezza e nel disinvolto concedersi, non fosse per il fatto che si uccide con i gas di scarico dell’auto, mentre si lancia dalla finestra schiantandosi in giardino un’altra sorella: ma in Eugenides c’era una famiglia bigotta e puritana che segregava le figlie femmine in un potente gotico americano, mentre qui c’è un benessere banale fatto di lettini per l’abbronzatura, festine e blandissimi divieti). Persino la tecnica male appresa e peggio padroneggiata del “narratore inattendibile” sconfina nelle fake news.
Se immagino mia nonna bambina vedo un uomo entrare in bagno (ai tempi non esistevano bagni), entrare in bagno e tapparle la bocca. Spesso, fantasticando, mi sono chiesta che cosa facessi io a sette anni, l’età in cui mia nonna veniva violentata dal padre. Ai parenti che protesteranno – mai avvenuto un simile episodio nella nostra famiglia, questa è diffamazione – risponderò avete ragione.
Sostiene Ciabatti che la percezione è importante quanto la realtà, e che “sentirsi così” equivale ad “essere così”. Ma il narratore inattendibile, in letteratura, ha un’altra funzione. Serve, nel giallo e nei thriller, per omettere indizi o fabbricarne di falsi, sviando il lettore: ne abusava per esempio Agatha Christie, e molti dei suoi critici la ritenevano sleale. Nel giallo-enigma, però, il colpo di scena finale, lo svelamento, ristabiliva la verità e riportava l’ordine nel mondo turbato dal delitto. Nei romanzi, poi, c’era sempre un personaggio (o un dispositivo del testo, magari lo stesso narratore onnisciente) che facevano da contraltare al personaggio inattendibile, rimettendo in bolla la storia. Il dottor S., che nella Coscienza di Zeno smaschera il protagonista dandogli del bugiardo. Flaubert, che in Madame Bovary avverte che Emma è intossicata dai romanzetti sentimentali. Cervantes, che nel Don Chisciotte rende palese che l’hidalgo non distingue fra le storie cavalleresche e la realtà.
Qui, invece, non siamo all’uno nessuno e centomila ma alla pallina da flipper impazzita, sarei tentato di dire al gioco delle tre carte. Sì, vengo da una famiglia di stupratori: no, me lo sono inventato. Sì, la mia amica è una lesbica frustrata che prende il sole ad Acapulco: no, forse sta morendo di cancro. Sì, ha un figlio che forse è gay ma forse solo introverso (l’amica Federica, dice Ciabatti, è vera: nella nota finale apprendiamo che è morta a 49 anni). Sì, mia figlia Anita è un personaggio, vi avviso fin dall’inizio che la sua età è fasulla (fossi Anita mi irriterei, la disinvoltura mi pare quella di Berlusconi che giurava sulla testa dei figli). E così via. Alla fine non è “niente è come sembra”, ma semplicemente “niente è”. Ed è un peccato perché l’inattendibilità di pura superficie, pour epater, alla fine si rivela un boomerang narrativo: una frustrazione adolescenziale ridotta a piagnisteo (e l’adolescenza è un’età anche terribile), una mediocrità che finisci per non sapere più se sia del personaggio o dell’autrice. Un romanzo che sembra un semilavorato, un sushi: eccolo qui, raw, non perdiamo troppo tempo a elaborarlo.
Sembrava bellezza e non lo era, per Livia. Non sembra bellezza, e non lo è, quel che Ciabatti scrive. Accade purtroppo in molte autofiction dell’ultimo periodo – non tutte, esistono anche esempi notevoli, qualcuno luminoso – che sono pura esibizione di “casi umani”, come nelle false risse e nelle false tragedie “reali” della tv.