Ha da poco inaugurato alla Triennale di Milano La terra inquieta, progetto di Massimiliano Gioni con la Fondazione Nicola Trussardi che indaga la rappresentazione delle migrazioni attraverso le opere di diversi artisti contemporanei e in una serie di immagini di reportage, materiali storici e oggetti di cultura materiale. Una mostra difficile da inquadrare, sospesa tra buone intenzioni, ambiguità e momenti di grande intensità.
Stando alle intenzioni, La Terra Inquieta vuole raccontare il presente attraverso le trasformazioni epocali che stanno segnando lo scenario globale e la storia contemporanea, in particolare affrontando il problema della migrazione e la crisi dei rifugiati. Un tema importante, difficile e drammatico, la cui scelta va premiata per il coraggio e la necessità, ma trattato attraverso una visione in parte ambigua, costantemente in bilico tra impegno sociale, intensità delle opere e delle reliquie in mostra, narrazione tra l’epico e il didascalico e il rischio sempre incombente di retorica.
L’ingresso ci vede passare per la porta riservata agli “others”, segnalata da un cartello luminoso di tipo aereoportuale, che fa il paio con un’altra porta, quella riservata agli “EU citizen”, da cui però è impedito l’accesso. Siamo tutti “altri”, insomma, fin dall’ingresso a quel lunghissimo, quasi labirintico districarsi e susseguirsi di opere di ogni foggia – con quella stessa idea del curatore/artista tanto cara ad Harald Szeemann, ma così difficile da supportare con un’adeguata costruzione intellettuale – di documenti, reportage da premio Pulitzer dal sapore romantico, infinite liste di morti in mare, appelli pubblici e agghiaccianti reliquie di naufragio ai limiti del macabro feticismo. Il preannunciato esercizio di empatia prova dunque a costruirsi attraverso l’alternarsi di momenti di alleggerimento emotivo e di una costellazione di pugni nello stomaco che, dando il ritmo al percorso, lo rendono fruibile alle sensibilità più diverse.
È vero che l’arte, dopo decenni di provocazione spesso gratuita e ormai digerita come cardi ingoiati da un asino ingordo, deve tornare a parlare della vita vera, riappropriandosi della responsabilità civile della narrazione del presente, proteggendo al tempo stesso i soggetti storici e politici di quella narrazione, in questo caso i migranti, dalla spettacolarizzazione mediatica e dall’assuefazione sociale cui vanno inesorabilmente incontro. Ma il modo in cui questo debba avvenire non appare ancora ben chiaro. Ci ha provato Okui Enwezor con All the world’s future, il suo progetto per la Biennale di Venezia del 2015 in cui individuava un filo conduttore nell’idea del ritorno all’intelligenza del fare, del costruire per essere.
Certo, il tema delle sconvolgenti migrazioni di massa dei nostri giorni non è risolvibile con un’idea unica e semplice, che diverrebbe immediatamente banale e presuntuosa, priva della necessaria complessità. Non si può che tentare dunque di cogliere più aspetti possibile e metterli assieme, sperando che la loro vicinanza li muova l’uno verso l’altro, aiutando, come questa mostra tenta di fare, la comprensione e la riflessione di tutti.
Ma una volta immersi nel cortocircuito ridondante e affannoso di immagini, dentro la linearità contorta seppur chiaramente leggibile e riconoscibile della successione di oggetti, testi, opere, racconti, stracci, canti e feticci, si rischia di perdere, più che l’orientamento in un’immedesimazione empatica, il senso dell’operazione, complice un allestimento fin troppo lineare e ormai datato.
Com’è nell’ormai riconoscibile e riconosciuto stile del curatore – pensiamo soprattutto alla sua Biennale di Venezia e alle mostre al New Museum di New York – molte delle opere scelte non sembrano ambire a quell’autonomia di linguaggio che dovrebbe essere loro propria, bensì appaiono sorreggersi alla didascalia che le rende leggibili a posteriori, diventando a loro volta didascalie che rendono leggibile il discorso generale della mostra.
È dunque il progetto curatoriale a dominare sopra le opere che lo compongono, provocando dubbi sull’opportunità di un approccio di questo tipo e sul reale approfondimento che, di fronte a un tema così complesso, doloroso e presente, appare oltremodo necessario. Opportunità, perché ci sono aspetti della realtà che, per quanto si voglia giocare con la sua costruzione sociale, superano inesorabilmente la sua rappresentazione. Si può parlare di Olocausto come dei migliaia di morti in mare, ma quel che c’è da aggiungere alla terribile e monumentale realtà è materia assai delicata che richiede uno sguardo assoluto, mai di parte, mai retorico.
Se guardiamo alle singole opere in mostra, questa opportunità, quando c’è, è fatta di assoluta necessità, di esperienza diretta, di visione elevata o di lucida empatia. Ma l’impianto socio-antropologico della mostra non sembra essere all’altezza delle parti – alcune parti – che compongono l’insieme. O forse è proprio questa la lucida trappola in cui si vuole far cadere lo spettatore. Come già rimarcato, il fenomeno di per sé è troppo presente, vicino allo sguardo, coinvolgente e disturbante per essere letto in un’unità percettiva e cognitiva.
Manca la visione gestaltica e questo produce una frammentazione che confonde, inebria, sposta le reazioni emotive da un estremo all’altro, mischia i pareri, commuove e fa arrabbiare. Il racconto della disgrazia e della morte dell’altro da sé – che è altro da sé per rifiuto e/o paura di accettare una realtà che potrebbe coinvolgerci direttamente, più che per una reale immunità dal rischio – costringe chi visita la mostra a uno sforzo di completamento di quell’unità mancante, finendo il lavoro e, anche, tappando le falle concettuali di una lettura non del tutto convincente.
Un passo in più verso una lettura d’insieme più solida sarebbe forse potuto venire da un diverso approccio nell’approfondimento del tema, che magari coinvolgesse nella progettazione più voci, oltre a quelle – seppur numerose ed eterogenee ma slegate e riconducibili alla visione unica del curatore – presenti nel progetto espositivo. Ma così è e, anche se qualche dubbio sul reale valore dell’indagine resta, non si può non apprezzare l’intenzione di far riflettere e il rifiuto di girarsi dall’altra parte di fronte a cotanta tragedia.
Non rimane dunque che lasciarsi andare all’ascolto delle singole voci dei protagonisti di questa intollerabile storia, che è la migrazione disperata di migliaia di individui che scappano da guerre, miseria e carestia. Magari provando a ridare un senso agli oggetti dei morti del naufragio di Lampedusa, che quella bacheca così bianca, fredda e ordinatamente riempita sembra collocare in un altrove anestetico ma che, pur non mettendo a repentaglio le certezze di chi deve poter tornare alla sua rassicurante quotidianità, possono regalarci un terribile quanto salutare e necessario esame di realtà.
Immagine di copertina: Francis Alÿs, Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River Strait of Gibraltar, 2008. Video e documentazione fotografica di un’azione. Courtesy Francis Alÿs and David Zwirner, New York/London