“The Assassin”, premiato a Cannes 2015 con una meritata Palma d’Oro alla regia, è un racconto di antichi tempi cinesi con qualche sospetto di allusione all’oggi: tra governanti ribelli e sicari imperiali, amori mai sopiti e vendette rimandate, si racconta la storia di Nie (la bellissima Shu Qi), guerriera invincibile che per amore (e per rifiuto della violenza) non porterà a termine la sua missione di morte
Non si sono sbagliati i giurati che hanno dato lo scorso anno al Festival di Cannes la Palma d’Oro alla miglior regia a Hou Hsiao-hsien per The Assassin. Raramente si sono viste di recente come nel suo film storico, che è anche un wuxiapian, un “melodramma di spada”, immagini così piene e raffinate: sia nelle sequenze iniziali, in un bianconero in chiaroscuro ma scintillante, sia nel successivo tripudio cromatico. Personale come pochi nel comporre l’inquadratura in modo quasi maniacale, l’ormai quasi 70enne regista cinese è bravissimo nel muovere l’azione, i personaggi, perfino la natura e gli sfondi anche quando la camera è fissa o quasi. Nel velare prima le sequenze, per suggerire il senso dell’intrigo ma anche del non detto, o del represso, per poi far esplodere i rossi accesi e i gialli degli abiti e degli arredi, quando divampa l’azione e sta per scatenarsi un duello.
Al centro della vicenda, ambientata nel nono secolo nella provincia ribelle di Weibo, che approfittando di un momento di decadenza della dinastia Tang cerca di conquistare uno spazio di autonomia intollerabile per il potere centrale (molti hanno voluto vedere riferimenti all’attualità, ai conflitti più o meno latenti tra il governo di Pechino e parti della Cina d’oggi, da Hong Kong a Taiwan), c’è una guerriera bellissima e malinconica, Nie Yinniang, dal viso ferino e dalla chioma lucente, di abilità ineguagliabile con la spada, magistralmente interpretata da Shu Qi. Fa parte dell’Ordine degli assassini”, una sorta di servizio segreto imperiale incaricato di eliminare i nemici dello stato: dopo un lungo apprendistato marziale e molti anni di esilio rientra nella sua città per uccidere Tian Ji’an (Chang Chen versatile ed efficace, virile e indifeso), governatore dissidente ma soprattutto suo cugino e sposo promesso e poi negato, amato e mai dimenticato. Nie lo avvicina e lo sfida, ma finisce sempre per rinunciare ad affondare il colpo, seguendo le ragioni del cuore e non gli ordini ricevuti e da principio accettati. Abdicherà infine al suo mandato, ritirandosi dall’ordine.
Se qualche difficoltà per lo spettatore occidentale viene dalla comprensione dei particolari storici del film, il piacere glielo restituisce tutto il regista vincitore nel 1989 della Palma d’Oro alla Mostra di Venezia grazie a Citta dolente, dramma esistenziale ambientato a Taiwan nel cruciale periodo 1945-49, quando l’isola, liberata dal dominio giapponese, scelse una strada diversa e contrapposta alla Cina di Mao. E glielo restituisce lo straordinario direttore della fotografia Mark Lee Ping Bing, maestro del colore sparato e sfumato. A otto anni da Il viaggio del palloncino rosso, Hou Hsiao-hsien passa dai corpo a corpo ravvicinati, sintetici e di perfette sincronie, ai campi lunghi che “guardano” con amore il suo paese e con rispetto il suo passato remoto. Dentro le camere, i cortili del palazzo del governatore si mette in scena la danza del potere e delle relazioni tra uomini e donne, sottolineando passioni, rivalità e gelosie annose: sotto l’occhio di una giustiziera invincibile e all’apparenza imperturbabile che “giustizia” non farà, scegliendo per sé un nuovo, definitivo esilio. Il suo rifiuto di obbedire alla tradizione e alla crudeltà della spada in qualche modo è forse anche un gesto di rivolta contro un ordine costituito che opprime. Anche qui, ogni riferimento a fatti e persone reali (anche dell’oggi) non è forse puramente casuale. E involontario.
The Assassin di Hou Hsiao-Hsien, con Chang Chen, Shu Qi, Yun Zhou, Satoshi Tsumabuki