Intervista a Gianni TBAY, polistrumentista romano che ci ha raccontato il suo ultimo album “Evil Flatmates” e il suo rapporto con il blues
The Blues Against Youth, o anche Gianni TBAY, è un polistrumentista romano che da circa dieci anni gira tra Italia, Europa e Stati Uniti con il suo campionario musicale che fonde rock, folk, country e blues. Di lui si può dire che non ama le etichette, le categorizzazioni e le spicce semplificazioni; anche se ascoltandolo si potrebbe pensarlo originario del limaccioso delta del Mississippi, The Blues Against Youth non scimmiotta quel periodo e quel genere, Gianni suona la sua musica e lo fa con l’alfabeto del blues. Questo suo ultimo lavoro, Evil Flatmates, è il primo in cui Gianni si accompagna con altri musicisti e il risultato è un album in cui suoni duri e sporchi si fondono con un arrangiamento ricercato e potente. Necessario un live per apprezzarlo a pieno.
The Blues Against Youth, Evil Flatmates, Far Out of Hand, Growin’ n’ Drownin, e poi ancora Good Morning, Bad Feelings… ci sarebbero ancora molti esempi che evidenziano come nella scelta del tuo nome, del nome degli album e delle canzoni sia preponderante una componente immaginifica che ha connotazioni tanto nette quanto fumose. Ognuno di questi nomi trasmette un’immagine ben precisa che subito dopo evapora in mille sfumature differenti: come hai scelto il tuo nome d’arte? E qual è l’immaginario da cui attingi e che vuoi riproporre?
L’immaginario musicale da cui attingo è quello della tradizione americana, quindi blues e country nelle loro varie declinazioni. Nei miei brani parlo di cose che mi sono successe, di luoghi visitati, persone incontrate e conclusioni a cui sono giunto. C’è il mio amore per il cinema e per la letteratura, diciamo che TBAY è un imbuto in cui butto tutto quello che prendo da fuori, spesso inconsapevolmente. Riguardo il mio nome d’arte, ho smesso di dare spiegazioni perché appunto si tratta di un nome, che di per sé evoca un concetto e se spiegato perde il suo potere.
Anche se suoni parecchi strumenti, quello che predomina è sicuramente la chitarra, nei tuoi lavori passati così come in questo tuo ultimo lavoro. Eppure sento una certa differenza che non dipende solo dalle collaborazioni presenti in Evil Flatmates. Cosa è cambiato?
Sì, la chitarra è decisamente il mio strumento e la suono da circa 28 anni. John Fahey diceva che la chitarra è una “caller” (come si può dire in italiano? Chiamante? chiamatrice?) e io sono d’accordo con lui. Stabilire un rapporto intimo con lo strumento è stato importante per la mia crescita musicale e umana. Per me suonare la chitarra significa stabilire una connessione con luoghi lontani che evocano tradizioni passate e, una volta sintonizzati sulla giusta frequenza è possibile andare ovunque. Questo a prescindere dalla tecnica. Parlando di Evil Flatmates,il suono è diverso dagli altri dischi perché ho interamente registrato con la mia Kay acustica classe 1953. E lei sì che è una chiamatrice di professione.
Parlando in modo specifico della tua ultima fatica, Evil Flatmates, chi sono questi “coinquilini cattivi”? C’è per caso un collegamento col fatto che per la prima volta tu abbia un “coinquilino” fisso (Stefano Isaia) più altri couchsurfer, per dirla così, che suonano con te?
A parte alcune persone in carne e ossa con cui ho avuto la sfortuna di condividere casa, i coinquilini cattivi sono quei cattivi pensieri che si annidano nei luoghi oscuri della nostra psiche, che fanno parte di noi, e spesso tendiamo a nascondere perché ce ne vergognamo oppure perché non abbiamo il coraggio di affrontare e accettare. Sono la nostra ombra che cammina con noi con cui a volte nella vita ci troviamo a fare i conti.
L’album era nato già con questa impostazione o nel realizzarlo ti sei reso conto che avrebbe suonato meglio con la collaborazione degli altri. Avevi bisogno di un sound più corposo, per così dire?
I brani lì ho composti da solo come tutti i miei dischi, poi sì, non saprei dirti nemmeno perché, ma ho sentito l’esigenza di un punto di vista esterno e con Stefano ci siamo trovati benissimo ad arrangiarli e registrarli assieme. Volevo fare un disco che suonasse diverso, più corposo sì e anche più arrangiato. A parte Stefano Isaia, sul disco sono presenti anche Manuel Volpe (basso), Victor Sbrovazzo (armonica), Maria Molloy Moyo (cori) e Massimo Scocca (chitarra), questi ultimi due assieme a Stefano fanno parte del trio punk-blues Lame.
Come ti sei avvicinato al blues, al country, al folk? So bene che questa è una domanda banale, ma in molti casi dai più giovani (e non solo) questi generi sono ormai visti come degli avi grandiosi, che hanno segnato un’epoca come i dinosauri, ma che però adesso sono fossili.
Mi sono avvicinato intorno ai 10 anni, grazie agli LP che mio zio mi doppiava in cassetta dalla sua collezione. Blues, rock, prog, folk e sì anche un po’ di country. Ma la folgorazione per il country c’è stata molto prima, quando ho visto Robin Hood di Walt Disney: il personaggio di Cantagallo aveva un sound decisamente country e infatti anni dopo scoprii che la colonna sonora originale era di Roger Miller, un asso del songwriting che ha scritto moltissimi brani country di successo dalla fine degli anni 50.
Riguardo i giovani e il blues, pensare che ciò che è vecchio sia da buttare e ciò che è nuovo sia il futuro è un paradigma nella nostra società che ci sta portando dritti nell’abisso. Però non tutti i giovani la vedono così, ce ne sono di molto curiosi e che non badano alle tendenze del momento.
Cos’è quindi che ti ha colpito e che ti ha fatto sentire il bisogno di riprodurre questa musica?
Non ho sentito esattamente il bisogno di riprodurre questa musica, ho sentito il bisogno di creare della musica che fosse mia e quello del blues, assieme ad altre influenze, era il mio alfabeto.
Possiamo dire che il blues, al contrario del rock, non ha mai rischiato di morire?
Riguardo alla morte del blues non mi sento di fare pronostici. Il blues è il punto di partenza di tutto quello che è venuto dopo, da un punto di vista di approccio, autenticità ecc.
Direi che finché restiamo umani, nel senso di esseri che provano dei sentimenti, il blues godrà di ottima salute.
Sono ormai dieci anni che ti esibisci tra Italia, Europa centrale e States. Quali sono le differenze che riscontri in modo più evidente, se ce ne sono, nella scena di questi tre “mondi” così culturalmente (ma forse neanche troppo) differenti?
Le differenze che ho notato sono tante. Per sintetizzare ti direi che in centro Europa la gente è generalmente più curiosa, e quindi anche più rispettosa verso chi si esibisce. In USA c’è un approccio differente, il pubblico è più critico e poi, mentre in Europa tendiamo a inscatolare/etichettare ogni genere in modo molto netto, lì negli States c’è molta più apertura mentale ed è facile trovare persone che apprezzano o suonano generi anche molto diversi tra loro, come se ci fosse sempre un filo conduttore comune, che poi credo sia la loro stessa cultura.
Quale pensi sarà il futuro di questi generi? Ti va di azzardare una previsione?
Non so, immagino che la tradizione proseguirà. Secondo me è proprio sbagliato pensare in termini di passato e futuro quando si parla di musica o di letteratura, per me è tutto intrecciato, fuso. Il futuro è l’ignoto, è può essere trovato nel “passato” nel momento in cui scopriamo qualcosa di nuovo per te.
Vorrei chiudere con una domanda che faccio a tutti: qual è la tua comfort zone musicale? Di qualsiasi genere e di qualsiasi epoca.
Live Album dei Grand Funk Railroad (1970). Potrei ascoltare quel disco all’infinito.