È in questi giorni nelle sale “The Eyes of Orson Welles”, un prezioso omaggio dell’irlandese Mark Cousin, critico, divulgatore e filologo, specializzato nelle opere, filmiche e pittoriche, del regista di “Quarto potere”: una sorta di lunga lettera in cui lo interroga sulle sue scelte, artistiche e personali. Lui lo racconta così: ‘Non volevo fare l’ennesimo biopic d’autore su un autore, questo è un film d’amore’
Mark Cousin, irlandese 53enne, è un ottimo critico e divulgatore cinematografico, un filologo specializzato nel cinema di Orson Welles e nel suo stile, in senso visivo soprattutto: talmente appassionato al soggetto, al personaggio, e in particolare alla sua produzione di pittore e disegnatore, da girare mezza America tra università e istituti di cultura prestigiosi (ma anche qualcuno ai più meno noto), tra parenti e amici del grande regista di Quarto potere, per estorcere dai loro forzieri, a volte letteralmente, dalle loro cassette di sicurezza bancarie, preziosissime tele, lettere, schizzi, appunti del maestro. Tanto impegno per poi analizzarli, studiarli, ricostruirne un percorso logico e cronologico, culturale e filmico, cioè collegarli ai vari periodi della sua carriera, ai differenti momenti di ispirazione in cui il regista stava, o più spesso stava cercando, di assemblare fra mille difficoltà i molti splendidi film che ha realizzato in una quarantina d’anni. Ma anche quando era alle prese con gli altrettanto numerosi monconi, tentativi, false partenze di film che produttori insensibili e malvagi, cali di creatività e più spesso di liquidità (economica) non gli hanno consentito di concludere e trasformare in un prodotto montato, finito. O peggio ancora che sono finiti nelle mani di altri figuri, incaricati dai suoi finanziatori di mettere insieme parziali immagini girate e sceneggiature spesso molto ripensate fino a trasformare tutto questo in qualcosa che un pubblico (pagante, of course) avrebbe potuto vedere in una sala di cinema.
Tanta certosina e meticolosa attività è ora visibile nel suo prezioso film The Eyes of Orson Welles, di cui Cousin è regista e sceneggiatore, nonché narratore in forma di voce che fa da sottofondo alle immagini di Welles, dei suoi, film, delle sue opere pittoriche e grafiche: dialogando con lui come in una sorta di lunga lettera in cui lo interroga sulle sue scelte, artistiche e personali, sull’infanzia e la famiglia, le molte donne che ha avuto e ha un po’ tiranneggiato, da Rita Hayworth a Oja Kodar, gli innumerevoli produttori con cui ha litigato e gli altrettanti giornalisti che ha depistato con le sue leggendarie fake news, cinematografiche ma non solo. Ricordate, Welles diventò famoso alla radio annunciando nel 1938, in La guerra dei mondi, l’avvenuta invasione dei marziani sul suolo patrio, il che paralizzò l’America immediatamente percorsa da milioni di automobilisti terrorizzati che fuggivano non si sa bene verso dove?
Il film è davvero godibile, nonostante forse un pizzico di complicità di troppo e qualche concessione al melò, e in Italia si può vederlo dal 16 al 19 dicembre in molte sale grazie a I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection (per info consultate www.biografilm.it.). È l’ultimo prodotto di una mente estremamente prolifica e libera, che molti libri ha scritto sul cinema (l’ultimo l’ha presentato un mese fa a Book City) e altrettanti film ha girato, tra storie del cinema (una fra l’altro rivolta ai ragazzi, uno dei suoi pubblici preferiti), più di una guida alla lettura delle immagini e parecchi film-intervista per la tv di grande pregio, ad autori del calibro di David Lynch, Martin Scorsese, Roman Polanski.
Ma se pensate che tutta questa cultura e divulgazione provenga da uno schivo e introverso topo di cine e/o biblioteca, da un rispettabile ma forse un po’ noioso abitatore di una torre d’avorio di volumi e immagini, disposto a volte a dividere, per generosità, la sua scienza con il pubblico, non potreste essere più lontani. All’incontro milanese con un gruppetto di giornalisti e giornaliste devoti ed emozionati, quasi che per interposta persona si stesse evocando il monumentale Orson in persona, si è presentato con una fiammante t-shirt in cui campeggiava il volto sardonico e inconfondibile del geniale Rainer Werner Fassbinder. Seduto a un tavolo, in evidente e compiaciuta partnership con un ragguardevole bicchiere di promettente liquido arancione, probabilmente un Negroni, Cousin ha salutato tutti brandendo un nero, enorme scarpone e ha dichiarato trionfalmente: “questo era di Welles”. Accompagnandolo poi con una più colta cartolina del 1920 a tema falstaffiano, che l’allora non ancora ragazzo prodigio avrebbe spedito al padre durante il suo lungo soggiorno giovanile in Irlanda, la terra di Cousin.
Il quale, una decina di anni fa, un po’ come facevano i registi bolscevichi russi degli anni venti che percorrevano la loro sterminata terra su treni attrezzati a proiezione cinematografica per mostrare i meravigliosi reportage di Dziga Vertov sulla patria della rivoluzione, ha girato insieme all’amica Tilda Swinton su un camion di 33 tonnellate, ribattezzato “Portable cinema”, offrendo ai cittadini di tutta la Scozia un certo numero di film di precaria diffusione, in una sorta di festival indipendente viaggiante. Il tutto è documentato nel suo Cinema is Everywhere, docufilm del 2011.
Studioso dedicato ma tutt’altro che assente dagli eventi del mondo, a domanda risponde, con intelligenza “Il vero pericolo non è Trump, ma la retorica che si porta dietro, il narcisismo, la sua slealtà. Quanto ci vorrebbe Orson per smascherarlo”. Forse anche perché, più di altri, sarebbe adatto a capirlo, in fondo un po’ egocentrico e impositivo sugli altri e sul mondo lo era anche lui: e infatti, proprio nel suo docu-omaggio, il regista domanda a Welles quanto sia stato attratto, nel combatterli, dai grandi tiranni, perfino dal più disgustoso, peggiore di tutti, Adolf Hitler. “Ma a parte gli aspetti caratteriali, lui è stato un socialista vero: è ammirevole ciò che ha fatto per la solidarietà, le idee progressiste, anche per tante organizzazioni che ha finanziato di tasca sua”.
Secondo Cousin Orson Welles era un vero “american artist”, nel senso di un grande incantatore di pubblico che ha sempre voluto stare dentro questo rapporto, ed era molto interessato al feedback di ciò che faceva, fosse la radio, il cinema o l’amatissimo teatro. “E un uomo molto colto. Per esempio era un grande ammiratore di Tintoretto, lo si nota analizzando alcuni dipinti e personaggi dei suoi film nei loro abiti, nei gesti. Ma in quel meraviglioso immaginario c’erano anche Picasso, di cui era molto amico, l’espressionismo, e in generale l’arte dotata di visioni larghe, lunghe, anche distorte a volte. Un artista sempre sperimentale: magari non finiva i film che aveva iniziato, ma andava sempre avanti. Quante immagini ha anticipato, che abbiamo visto poi in opere non sue. Amava moltissimo le scoperte, la tecnologia che si evolveva anche nel mondo delle cinema: e non nel senso di fare del film un prodotto in serie, industriale, ma di usare la scienza per esprimere meglio la creatività. Era un vero ‘visual thinker artist‘. Anche per questo mi è parso interessante mettere a confronto il suo cinema e il lavoro che ha fatto come artista”. Si potrebbe aggiungere che The Eyes of Orson Welles dimostra chiaramente come i suoi dipinti non erano solo stadi preparatori di scenografie, o bozzetti di personaggi di film a cui lavorava. Molte di queste opere hanno un valore in sé, oltre che affettivo o documentario, anche proprio in rapporto alla loro qualità artistica.
Ma, secondo lei, era meglio come regista o come attore? “Se volete la mia opinione, meglio come regista, come attore a volte era perfino minimalista. Definirei questo lavoro che ho fatto su di lui un film d’amore. Non volevo l’ennesimo biopic d’autore sull’autore, con la voce fuori campo che ti spiega tutto: perché è importante, cos’ha inventato, come dirigeva i registi, etc. Volevo andare alla radice, anche estetica, della sua ispirazione. Perché penso che Welles non dovrà mai essere dimenticato. Anche se incredibilmente la figlia Beatrice, che molto mi ha aiutato nel realizzare questo omaggio, mi ha confessato di aver paura che ciò accada. È il motivo per cui ha accettato di mettersi al lavoro con me”.