Cultweek mette in campo due generazioni di critici per raccontare “The Hateful Eight”, western eccentrico. Non tutto è perfetto: ma chi sa fare cinema così?
L’America nel suo insieme (non solo gli Usa, ma l’intero continente) è stato costruito sullo sterminio degli indigeni, la prevaricazione e la violenza. Oltre che sul traffico di schiavi dall’Africa. Quando, alla fine del ‘700, la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti sanciva il diritto di perseguire la felicità, oltre al diritto alla vita e alla libertà, spostava molto avanti il concetto dei diritti, ma evidenziava la contraddizione tra intenti liberali e realtà schiavista. Quando poi una lunga e sanguinosa guerra civile stabilì l’abolizione della schiavitù, le riserve degli stati confederati sconfitti rimasero tutte. Inutile fare sociologia spicciola, quella profonda ferita del cuore statunitense non si è mai rimarginata.
Quentin Tarantino con il suo nuovo, attesissimo film, The Hateful Eight parte proprio da lì, da quella ferita. Siamo in Wyoming, la guerra civile è appena finita, il paesaggio è innevato, un Cristo di legno è sommerso dal bianco, e in lontananza si intravede una diligenza. Che in tempo reale (mente scorrono i titoli di testa) si avvicina sempre più. Il postiglione sferza i cavalli, all’interno stanno i due passeggeri che hanno “noleggiato” il mezzo di trasporto per viaggiare soli: un uomo e una donna. Lui è John Ruth (Kurt Russell), cacciatore di taglie che non uccide le sue prede anche quando la legge glielo permetterebbe. Infatti ha intrapreso il viaggio per andare a Red Rock dove intende consegnare la sua prigioniera, Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) allo sceriffo locale, che dovrà procedere a pagamento della taglia e impiccagione.
La diligenza si ferma per raccogliere il Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), un nero che ha combattuto con gli unionisti – custodisce una preziosa e personale lettera del presidente Lincoln – e poi è divenuto cacciatore di taglie, ma senza gli scrupoli di Ruth. Infatti ha al seguito un bel po’ di dollari sotto forma di cadaveri di ricercati. Poi imbarcano anche Chris Mannix (Walton Goggins), un rinnegato sudista che dice di essere il nuovo sceriffo di Red Rock.
Ma tutti sono costretti a fermarsi alla stazione di posta, perché una tormenta di neve rende impossibile proseguire. La padrona non c’è: Bob, il messicano che al momento la gestisce (Damian Bichir), dice che lei è via per motivi di famiglia. E lì stanziano già Oswaldo Mobray (Tim Roth, tarantiniano doc da Le Iene a Pulp Fiction) che fa un sedicente boia, il generale sudista Sanford Smithers (Bruce Dern) inchiodato su una poltrona e il bizzarro cowboy Joe Gage (Michael Madsen, un altro classico sodale del regista, da Le Iene a Kill Bill).
Tarantino ha così composto il suo ring, ha piazzato i suoi contendenti, li ha presentati e caratterizzati mescolando dati autentici e dissimulati. E per farlo ha preso spazio (il formato del film, girato in pellicola, è magnificamente extralarge) e tempo (il film sfiora le tre ore, le supera nella versione 70mm). Tutto in attesa di una seconda parte composta da autentici fuochi d’artificio narrativi, visivi e politici, con la violenza che informa l’intero paese e l’intero schermo, pronta ad esplodere.
In modo quasi buffo, sui bistrattamenti del volto di Daisy, poi sempre più forte, al punto da diventare difficile da sostenere: ma è ancora poco rispetto a qual che succede, con moncherini che si agitano aggrappati ad altri rispetto al titolare, molto vomito e ancor più sangue. Per i tarantiniani lo spettacolo è garantito e sublime, gli animi più sensibili potrebbero rimanere scossi. Si può accusare Tarantino di tutto: è violento, è verboso, è enfatico, è spaghettosamente western, inutilmente wide screen, ma non c’è bisogno di amarlo per osservare come ogni suo nuovo film sia in grado di rispolverare il grande cinema come ormai solo pochi sanno fare.
Ultra Panavision 70, un’esperienza magica
Sono passati tre anni da quando, nel 2012, il maestro del cinema pulp contemporaneo presentò al pubblico Django Unchained, settimo film di una strabiliante carriera, che però non lasciò così entusiasta il pubblico, nemmeno i suoi più grandi sostenitori. Ma chiunque, in passato, possa aver pensato, anche solo per un istante, che la stella di Tarantino avesse smesso di brillare, con The Hateful Eight, dovrà ricredersi.
La storia del film è curiosa: ha “debuttato” come narrazione al Los Angeles Ace Hotel Theatre, ex cinema storico dove, copione alla mano, il 19 aprile 2014 fu recitato in forma di singolare sequel di Django: la risposta del pubblico fu così entusiasta che il regista, che già inizialmente l’aveva pensato come evento a sé stante, decise di farne un vero e proprio lungometraggio. Uscito a fine 2015 in una prima distribuzione in poche, selezionate sale americane, approda in Italia per essere diffuso in digitale, ma si può vedere anche nell’originale versione in pellicola, in tre sale, l’Arcadia di Melzo, la Cineteca di Bologna e il Teatro 5 di Cinecittà a Roma. La scelta della pellicola è interessante: in un panorama dominato dalle tecnologie digitali, Tarantino e la sua squadra (in cui spicca Robert Richardson, il direttore della fotografia) hanno scelto di usare un formato inutilizzato per decenni, il più glorioso (per intenderci, quello di Ben Hur), senza rivali per precisione e qualità, l’Ultra Panavision 70, qui adattato alle attrezzature più moderne. Ne nasce un’esperienza unica, un evento magico per qualsiasi spettatore, cinefilo o no.
Il plot ricalca una pièce teatrale, un dramma da camera che chiude i protagonisti in un unico, grande ambiente comune, l’Emporio di Minnie, che presto si trasformerà in un campo di battaglia. Ma la versione in pellicola si apre con una breve, vera Overture composta da Ennio Morricone, che, dopo 40 anni, è tornato a firmare la colonna sonora di un western.
Il film, nettamente diviso in due parti dal tono molto diverso fra loro, è indubbiamente figlio di un maestro della provocazione stilistica, quindi è normale aspettarsi qualche azzardo. Girando in formato panoramico (ma, ironicamente, quasi senza alcuna sequenza panoramica) e concentrandosi sui primi piani dei personaggi, Tarantino sfrutta il ritmo dei dialoghi (protagonisti indiscussi) per allestire una visione distorta e sadica del sogno americano, ingenuamente inseguito da criminali, razzisti e misogini, che combattono senza ideali che non siano la stretta sopravvivenza. Il risultato è una vera parodia della giustizia, pubblica e privata, quella stessa giustizia abilmente richiamata dall’espediente romantico dell’ombra lontana del presidente Lincoln, il cui nome viene ripetutamente scandito, come se fosse una partitura musicale.
The Hateful Eight è un ringraziamento, un omaggio intelligente e divertente al cinema che il suo autore ha sempre dichiarato di amare. Preso in blocco. “Ogni volta che faccio un film cerco di farne cinque in uno, perché so che non riuscirò mai a fare tutti i film che mi piacerebbe fare”, sono parole sue. Ciò che colpisce di The Hateful Eight è proprio l’abile mescolanza dei generi, orchestrati in un continuo crescendo, che dall’atmosfera sospesa dei primi paesaggi western guida lo spettatore verso acuti sempre più splatter, tipici dei suoi cari b-movies, violenti e insanguinati, tipicamente “alla Tarantino”.