I Libertines hanno sempre cercato una sintesi tra il mito di Albione e la realtà di una generazione disillusa. Nel nuovo CD si ritrova quel furore più un pizzico di autocritica
I ribelli dell’indie sono tornati. L’uscita di Anthems for Doomed Youth, nuovo album dei Libertines dopo undici anni dal loro ultimo, sembrava una notizia troppo bella per essere vera, e come tale mi aveva lasciata cautamente diffidente. Forse dubitavo che una complicità artistica miracolosa come quella tra Pete Doherty e Carl Barât – una delle migliori coppie cantautoriali dai tempi di Lennon-McCartney – avrebbe potuto sopravvivere intatta a tutti questi anni di litigi, droghe, riabilitazioni, e perfino un furto. E invece, per fortuna, mi sbagliavo.
La musica dei Libertines ha sempre cercato una negoziazione tra i vecchi miti d’Albione, di gloria bellica e poetica, e la realtà di una generazione disillusa e scettica. In Anthems for Doomed Youth si ritrova tutto quel furore, con un pizzico di auto-critica in più.
Barbarians, in apertura, ci riporta alla loro visione del rock come un inno di chitarre turbolente, una poesia per sentirsi liberi dall’ipocrisia. A proposito di poesia, l’album è pieno come non mai di riferimenti letterari, che modernizzano il linguaggio della cultura inglese.
Gunga Din, il singolo che ha anticipato il disco, cita la poesia omonima di Rudyard Kipling trasportandone, attraverso l’agrodolce incontro delle voci di Doherty e Barât, il tema del senso di colpa dall’Inghilterra imperialistica del poeta alla contemporaneità. Il titolo stesso dell’album cita “Anthem for Doomed Youth” di Wilfred Owen, poeta-soldato che denunciò come una falsa idea di gloria celasse le brutalità della prima guerra mondiale. La canzone che ne riprende il titolo, non a caso, invoca Oliver Cromwell e George Orwell, simboli dell’anti-establishment inglese, come possibili ispirazioni di una ribellione che però non riesce a concretizzarsi e non va da “nessuna parte”.
In Iceman la reinvenzione dell’immaginario britannico avviene attraverso Londra, descritta da Doherty e Barât in una vena a metà tra Dickens e Jamie T, tra romanticismo urbano e “squallore”, sottolineati dalla chitarra pensosa e oscura.
You’re My Waterloo, pezzo scritto anni fa che solo ora trova un’incisione vera e propria, è uno dei migliori dell’album: il suono del pianoforte, intimo e sincero, naviga tra due tipi di sconfitte – la lotta che ognuno combatte contro i propri demoni interiori e, ovviamente, l’amore. L’amore che ritorna, in atmosfere ancora più tormentate, nel pezzo di chiusura: tributo a Alan Wass, musicista amico di Doherty recentemente morto, Dead for Love chiude il disco riflettendo sull’amore che genera passione, follia, e morte. Guardando questo abisso, piano e chitarra sfumano nel suono di un rullino da film, a segnare la sensibilità e la modernità di questa ode.
I Libertines si confermano una scintilla, folle ma brillante, di due ragazzi un po’ idealisti, un po’ incompresi che insieme creano qualcosa di geniale. Prendendo da registri culturali diversi gli spunti della propria ribellione, Anthems for Doomed Youth riapre un discorso chiuso troppo presto, forse ancora più rilevante oggi di quanto non lo fosse dieci anni fa.
Anthems for Doomed Youth dei Libertines (Virgin EMI)
Immagine di copertina di FIB Benicassim Festival