Il regista messicano, di nuovo in corsa per la statuetta, porta Leo Di Caprio e Tom Hardy (strepitosi) nel Nord Dakota, per raccontare di indiani e cacciatori
Sarà lo scintillante The Revenant a regalare al 52enne regista messicano Alejandro González Inarritu, vincitore l’anno scorso con Birdman delle statuette al miglior film e alla miglior regia, un doppio Oscar consecutivo?
Sarebbe il secondo nella storia, dopo Joseph Mankiewicz che trionfò nel biennio 1949-1950 con Lettera a tre mogli ed Eva contro Eva. E i pronostici di quest’anno (oggi per chi legge le nomination ufficiali delle cinquine in gara per ogni categoria), se guardiamo ai recenti verdetti dei Golden Globe sono ancora migliori, perché oltre a vincere i massimi due premi ha anche “piazzato” Leonardo Di Caprio al primo posto come miglior interprete. L’attore, che ha alle spalle 4 nomination ma finora nessuna vittoria, ha dedicato questo suo Golden Globe ai nativi di tutti i paesi, alle popolazioni indigene minacciate dall’Occidente, aggiungendo che nel film ci sono almeno trenta scene tra le più difficili, pure fisicamente, che ha dovuto affrontare nella sua carriera. Aggiungendo che The Revenant è una storia ricca di spunti positivi, un inno alla vittoria del coraggio e della tenacia.
Ma questa descrizione, tutto sommato ottimista, del miglior rappresentante della generazione degli attori americani 40enni, forse l’unico davvero in grado di fare (come i “papà” Hoffman e Pacino) la commedia divertente (Prova a prendermi) e sentimentale (Titanic), il dramma politico (Il lupo di Wall Street) e quello storico (Gangs of New York), il thriller esistenziale (Departed) e il western delirante (Django Enchained), e di reggere quasi da solo anche un film pessimo come Il grande Gatsby, è decisamente parziale.
A cominciare dalla strepitosa battaglia iniziale tra cacciatori bianchi e indiani, che ha, pur nel suo assoluto naturalismo, qualcosa di epico che ricorda il Coppola di Apocalypse Now, il film di Inarritu ci fa esplorare un’America ottocentesca dura, inospitale, violenta, una terra piena di trappole e finti amici – come la Broadway di Birdman o il suo Messico contemporaneo delle bande dei Narcos. – Dove perfino gli eroi come Di Caprio, e idealità come l’amore paterno, la fede, il rispetto per gli altri, sono compatibili solo con l’estrema lotta per la sopravvivenza personale, prima, necessaria e quasi unica istanza esistenziale, che passa sopra ogni altro aspetto in fatto di relazioni personali, culturali e razziali. Una terra in cui l’isolamento e le difficoltà fisiche e psichiche spingono gli individui ai limiti della follia.
Tratto dal fortunato romanzo omonimo di Michael Punke, uscito nel 2004, The Revenant (letteralmente, il redivivo) racconta le vicende, realmente accadute in una spedizione di caccia nelle vergini terre del Nord Dakota, dell’esploratore Hugh Glass (Leonardo Di Caprio), quasi sbranato da un grizzly e dato per morto, quindi abbandonato, dai membri del suo stesso gruppo. Nella sua lotta per non morire, Glass sopporta inimmaginabili sofferenze fisiche, il tradimento di uno dei suoi compagni, John Fitzgerald (Tom Hardy), e la morte di Hank, il figlio mezzosangue che ha avuto da una donna Pawnee. Superato un durissimo inverno troverà vendetta e redenzione. Quello di Inarritu è un West prima del western, popolato da soldati francesi e piccole tribù di pellerosse, in cui ci si fa la guerra in pochi, e per restare vivi: siamo decenni prima delle “grandi guerre indiane” che portarono alla conquista del west. E in palio non c’è un continente ma una decina di pelli da vendere al prossimo villaggio, in cambio di un po’ di whisky e di ristoro. Un’isprazione, una rappresentazione che sembrano più vicine al meraviglioso Missouri di Arthur Penn e ai momenti più crudi di Corvo rosso non avrai il mio scalpo che agli esperimenti venati di nostalgie, più o meno manieriste, di Silverado o Balla coi lupi, per citare due film comunque più che degni.
A supportare il tutto un cast eccellente, ruvido e misurato, dove accanto a Di Caprio ci sono lo strepitoso Tom Hardy, l’one-man film di Locke ma anche l’ottimo comprimario di Mad Max The Fury Road e Il cavaliere oscuro (e lo rivedremo presto nel musical London Road), Domhnall Gleeson, Will Poulter e molti altri ottimi comprimari.
Se è vero che il western non si fa più perché costa cifre ormai irrecuperabili ai botteghini, fisici e elettronici, questo è arrivato a 135 milioni di dollari solo per la lavorazione. e lo si deve allo stile sperimentale di Inarritu, che l’ha voluto “alla Dogma”, illuminato solo dalla luce naturale. Che però gli ha regalato splendenti paesaggi innevati, albe e tramonti ghiacciati, magici, arrossati dal sangue di bianchi e pellerossa. C’è voluto un anno per girarlo, dal settembre 2014 all’agosto 2015, nella Columbia Britannica dove nei lunghi mesi invernali ci sono poche ore di luce al giorno e si arriva a -30 gradi, temperatura alla quale non solo gli uomini ma anche le macchine cessano di funzionare. Inarritu avrebbe voluto realizzare il film in ordine cronologico, dalla prima all’ultima scena, ma alla fine ha dovuto spostarsi nell’argentina Terra del Fuoco per girare le ultime sequenze: “Era chiaro fin dall’inizio che avremmo avuto piccoli momenti preziosi, un po’ alla volta, per creare più intensità ma anche per le condizioni climatiche. Lavoravamo in paesaggi così remoti che per raggiungerli impiegavamo il 40% della giornata. Quei posti, però, sono così meravigliosi e potenti che sembrano immacolati, mai toccati dall’uomo: è ciò che ho sempre voluto”.