“The Square”, diretto del regista svedese di “Forza maggiore”, ha vinto un po’ a sorpresa il Festival di Cannes 2017, e ora esce in Italia. Ne aveva e ne ha tutti i meriti, per la complessità dei temi trattati, la bravura dei protagonisti (da Claes Bang a Elisabeth Moss), l’ironia con cui disegna una società di massa per pochi. E la varietà di stile con cui è girato, che cambia sempre la distanza dal soggetto in primo piano, standogli molto vicino o molto lontano. Un film che ci appartiene per intero. Ognuno dovrebbe assaggiare, gustare le declinanti fortune di Christian, elegante direttore di un museo d’arte contemporanea, gelido, progressista e politically correct: almeno fino a quando gli rubano cellulare e portafogli. E finché la promozione “estrema” di una mostra lo espone alle critiche più feroci
Il fascino non più tanto discreto della borghesia, in questo caso svedese, in questo caso legata alle mostre e ai musei, alle installazioni che titillano il divenire di nuovi concept e vecchi business. Sotto le apparenze restano le antiche malattie, quelle di Buñuel per intenderci, ma qui i borghesi seduti spesso a tavola riescono a saziarsi: quando avvertono che il pranzo è servito, i commensali corrono senza bon ton verso il buffet. The Square, il nuovo film di Ruben Ostlund (mettiamolo nella top list, lo merita, la prossima tappa sarà un film sul mondo della moda) insegue quei felici vacanzieri che si erano trovati a tu per tu con una valanga in Forza maggiore e che finivano a camminare dispersi proprio come il gruppetto buñueliano.
E qui il regista svedese, forte della Palma d’oro a Cannes 2017 che ha spiazzato un po’ tutti, alza il tiro, lo stile e la voce, mette sulla lista della sua spesa non solo la critica alla società “artistica” o pseudo tale ma anche, allargando il cerchio, l’inganno, l’egoismo. E la lotta di classe, e le buone e cattive maniere, anche a letto (una memorabile scena ha per protagonista un condom dopo l’uso), anche in una sala da conferenza dove un uomo, colpito dalla sindrome di Tourette, libera i suoi freni inibitori. Poi c’è anche il discorso illuministico, alla François Truffaut, del buon selvaggio e del regno animale in genere, con un performer scimmiesco che saltando sui tavoli occupa un lungo pre finale dove ancora una volta le convenzioni sono sfidate.
Al centro di questo onnivoro discorso critico c’è un direttore di museo che sta per varare una nuova opera, The Square appunto, un quadrato luminoso che delimita un ideale spazio dove vige uguaglianza, libertà e giustizia per tutti: così, per stupire gli astanti, arriva perfino a far saltare in aria nel quadrato, in un video promozionale che sarà ovviamente “virale”, una bimba, una piccola fiammiferaia, una mendicante bionda, con record di contatti. Tra parentesi c’è sempre il forte sospetto che si tratti di una furbata, di un espediente per racimolare soldi dagli sponsor progressisti, per avere un’intervista in tv da una giornalista sperduta nel lavoro ma perfino capace di dichiarazioni romantiche, con patologica attrazione per i preservativi.
A Ostlund interessano molte cose legate all’attualità sociale e culturale, le cuce insieme quasi sempre col giusto punto di sutura, anche se c’è qualche lunghezza e un finale con una lama che non taglia bene. Il protagonista, fac totum dell’arte contemporanea, pensa di essere stato derubato in piazza durante una scenata organizzata, perciò denuncia un intero palazzo dove crede si nasconda l’autore del furto di telefonino, portafogli e gemelli (che in realtà erano solo caduti). E le cose si complicano, perché la sua “denuncia” mette in moto un altro giro di rabbia, da parte di un ragazzino che esige da lui la riparazione dei danni sociali.
Anche nel film di Marco Ferreri, anticipatore per eccellenza, la Donna scimmia veniva esposta al curioso ludibrio morboso della massa: qui in una festa vip l’autore mette in circolo il sospetto di un uomo scimmia (Terry Notary della saga di Planet of the apes), che strapazza gli ospiti d’onore ululando dal profondo della foresta di cristalli per risvegliare istinti, paure e desideri primordiali (tutto ex aequo). Pieno di suggestioni come un giacimento che non si finisce di esplorare, The Square è provvisto di una forte sorgente di ironia, è impressionista nel disegno della società di massa per pochi, cambia sempre la distanza dall’obiettivo e sta molto vicino o molto lontano.
Nessuno si salva nel bilancio finale, neppure la giornalista Elizabeth Moss (bravissima come lo era nella società pubblicitaria tv di Mad Men che scalava con tenacia di conquista), neppure i “fastidiosi” mendicanti ormai soggetto di installazioni, come nelle intenzioni del direttore accademico, il giovane attore Claes Bang, perfetto. È già divorziato, ha due figli, il successo in testa, ed è capace perfino di promuovere l’altruismo con quel quadrato luminoso, magico, entro i cui limiti ogni sopraffazione è proibita (quadrato non cerchio, come nella tradizione, anche magica e politica, di oggi).
Ci sono stoccate in tutte le direzioni – anche per l’arte povera e pop di quell’opera fatta di mucchietti di granelli di sabbia, viene in mente Alberto Sordi nelle Vacanze intelligenti – e la sensazione è che The Square sia un film che ci appartiene per intero e che ognuno dovrebbe assaggiare e gustare. Ma gli incassi recenti inducono al suicidio: pochissimi spettatori per Una questione privata dei Fratelli Taviani, adesioni di masse desiderose di terrori in ordine sparso per It e perfino per Saw: the legacy, uno dei gradini più bassi dell’umanità cinematografica. Blade runner 2049 è già troppo raffinato e filosofico. Ci si diverte, tra l’altro, con The square e un poco di horror c’è anche qui: basterà a farlo notare a un pubblico sempre più disattento?
The Square, di Ruben Östlund, con Claes Bang, Elisabeth Moss, Dominic West, Terry Notary, Christopher Læssø