“The Tribe” di Myroslav Slaboshpytskiy, scoperto a Cannes 2014, è un film-shock senza parole, attraversato dall’umanità disperata di un collegio per sordomuti
Apparso per la prima volta sugli schermi festivalieri glamour di Cannes, edizione 2014, The Tribe, esordio dell’ucraino Myroslav Slaboshpytskiy, arriva nelle sale italiane dopo aver ricevuto vari premi, tra cui quello assegnato dalla Settimana Internazionale della Critica e quello del nostro Milano Film Festival. Riconoscimenti doverosi per una pellicola che lascia il segno, un atto di violenza volontario nei confronti di chi guarda. Il regista ribalta qui la realtà mettendo in scena un dramma in cui coloro che faticano a comprendere non sono i disabili protagonisti, bensì gli spettatori. La scelta di non sottotitolare il linguaggio dei segni serve infatti proprio a questo, così come l’idea di mantenere sempre distante la macchina da presa, senza mai un primo piano.
In questo modo l’odissea del sordomuto Sergey (Grigoriy Fesenko), che deve affrontare la nuova (dura) realtà di un collegio in cui ragazzi e ragazze come lui spacciano droga e si prostituiscono, buca lo schermo con una potenza immane. Anche perché non è difficile interpretarlo come il racconto lucido e preciso dell’inferno in cui sono costretti a vivere gli ucraini – in uno dei paesi più difficili del mondo – la cui speranza più grande è ottenere un visto per l’Italia (si fa notare la sequenza delle magliette souvenir con lo stivale stampato sopra).
L’inesperienza però, gioca un brutto scherzo a Slaboshpytskiy, il quale si fa prendere la mano sul più bello. Per come è strutturato, The Tribe era infatti già ricco di un sottotesto denso, e non aveva certo bisogno di reiterate (e perciò ridondanti) sequenze di violenza esplicita. Non era necessario mostrare l’ennesimo assalto del branco, e non erano indispensabili le scene di sesso, abbastanza spinte. Finiscono per essere solo delle scorciatoie emozionali/narrative, che depotenziano l’estrema pulizia della messa in scena, caratterizzata da lunghi long take in decadenti e silenziosi scenari post sovietici.
Si tratta comunque di una parabola da vivere, meglio se nel buio delle sale cinematografiche, luoghi unici in cui l’immedesimazione, e perciò la sofferenza vera di fronte a un simile squallore, diventa inevitabile e amplificata. Tutto merito del buon lavoro del regista, che è riuscito nel difficile compito di evitare la retorica più spicciola, restando al servizio di una testimonianza “scientifica”, precisa, e quindi decisamente preziosa.
Citazione a parte meritano i giovani interpreti, tutti perfettamente in parte e capaci allo stesso modo di trasmettere le più viscerali emozioni umane solo attraverso la mimica. Un film muto sulla disabilità, in cui l’irrefrenabile e incomprensibile roteamento delle mani colpisce più di tante parole. I dialoghi non servono quando c’è così tanto trasporto tra chi riprende e chi recita, una sinergia vitale che rende il film, non privo di difetti, uno dei più interessanti e particolari esordi nel cinema contemporaneo.