Giants of Rock: i The Who in concerto ad Assago

In Musica

Campioni “furenti” dell’Inghilterra degli anni ’60, gli Who hanno perso qualche pezzo per strada ma hanno raggiunto i fatidici 50 anni di carriera. Ad Assago appuntamento con la Storia. Della musica rock

E alla fine ce l’hanno fatta, a tagliare il traguardo dei cinquant’anni alive and kicking sulle maledette scene e a superarlo, loro che cantavano “spero di morire prima di diventare vecchio”. Loro sono gli Who, monumento fra i massimi della storia del rock, campioni furenti della giovane Inghilterra frustrata che negli anni ’60 metteva fine alla lunghissima glaciazione vittoriana, al più lungo e uggioso dopoguerra di tutto l’Occidente.

Come tutti i gruppi così longevi, gli Who di oggi non sono gli stessi che esordirono a Londra nel 1964. Non sono arrivati interi alla meta, del resto, neppure i Rolling Stones, che cominciarono nel 1962 e hanno perso per strada Brian Jones, Mick Taylor e Bill Wyman. E da noi, si parva licet, poco è rimasto dei Nomadi della prima ora.

Degli Who originari, che mossero i primi passi nella piccola tempesta mod del 1964 – lambrette, capelli a caschetto, parka verdi, pub e amfetamine – restano il chitarrista e autore di quasi tutte le loro canzoni, Pete Townshend, 71 anni. E lo sfrontato, epico frontman Roger Daltrey, 72 anni, bell’esemplare di teppista londinese che accolse il lungagnone Townshend nella sua band di allora, The Detours, definendolo “a nose on a stick”, un naso su un palo.

Se n’è andato nel 1978 a 32 anni il frenetico e lunatico batterista Keith Moon, uno dei più grandi di sempre, una macchina del moto perpetuo votata alla distruzione e all’autodistruzione. Quello che si travestiva da papa da nazista e da gatto, quello che faceva esplodere la batteria durante un concerto mentre Townshend fracassava la sua chitarra, quello che metteva un candelotto di dinamite nel cesso della sua stanza d’albergo, che scagliava televisori e mobili dalla finestra e mandava la sua Mercedes a incagliarsi in una piscina. Quello che si ubriacava e si imbottiva di droghe e tranquillanti da cavallo, quello che morì nel sonno dopo aver buttato giù 32 pastiglie di clometiazolo, un farmaco usato per curare l’astinenza da alcool.

Lo ha raggiunto nel 2002, a 58 anni, il laconico bassista John Entwistle, forse il più grande della storia del rock con Jack Bruce dei Cream, morto per arresto cardiocircolatorio nella stanza di un albergo a Las Vegas, dopo anni di humour macabro e di abuso di cocaina.

Hanno preso il loro posto, li troverete sul palco del Mediolanum Forum di Assago il 19 settembre, Pino Palladino, classe 1957, nato a Bristol ma di evidente origine italiana, un bassista fretless abbastanza eclettico da suonare con Raf e con i Nine Inch Nails, e il figlio d’arte Zak Starkey, rampollo del drummer dei Beatles Ringo Starr, batterista a sua volta – non ci credereste, ma lo tirò su come un figlio e gli insegnò il mestiere proprio Keith Moon, mentre papà Ringo era a fare la dolce vita a Montecarlo – e già con gli Oasis.

Gli Who di oggi da lungo tempo, almeno dalla fine degli anni ’80, si autocelebrano. La vena creativa è andata via da un pezzo (ascoltate l’ultimo album di studio, Endless wire del 2006, più che dignitoso ma sideralmente lontano dai loro classici, quanto meno per lo stupore di scoprire questi spietati incursori, abituati a non fare prigionieri, arresi a ballad acustiche di vago sapore celtico), ma l’eccellenza esecutiva resta: non a caso gli Who sono stati un gruppo da performance al calor bianco, basta ricordarli a Monterey a Woodstock e all’isola di Wight, basta ascoltare il loro Live at Leeds del 1970, per me il più bell’album rock dal vivo di sempre. E le meraviglie che hanno messo in serbo nel corso degli anni basterebbero per dieci concerti.

Cominciarono nel 1965, lo stesso anno in cui i Rolling Stones non riuscivano a trovare soddisfazione, con I can’t explain, disarmante manifesto dell’incertezza giovanile nei nostri anni maleducati, non così distante se ci pensate dal Giovane Holden:

Provo una sensazione dentro,
non so spiegarlo,
è di un certo tipo,
non so spiegarlo,
sento caldo e freddo,
non so spiegarlo,
sì, nel profondo della mia anima, sì,
non so spiegarlo.
Ho le vertigini
e mi sento triste
Le cose che mi hai detto,
be’, forse, sono vere
sto facendo sogni strani
e continuo e continuo
so cosa significa ma
non so spiegarlo
penso che sia amore
provo a dirtelo
quando mi sento triste
ma non so spiegarlo.

Proseguirono lo stesso anno con l’insofferente Anyway, anyhow, anywhere – da noi c’erano Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli e Come potete giudicar dei Nomadi – che consolidò la loro fama di rebels:

Io posso fare ogni cosa
giusta o sbagliata
posso parlare come mi pare
e proseguire così
non me ne frega in ogni caso
non perdo mai
in ogni modo, in ogni caso, in ogni luogo.

E conclusero l’annus mirabilis con il pugno allo stomaco di My generation, inno generazionale se mai ce ne sono stati, intonato con voce marziale e balbuziente da Roger Daltrey:

La gente cerca di metterci sotto
(parlando della mia generazione)
solo perché ce ne andiamo in giro
(parlando della mia generazione)
Il loro mondo è terribilmente freddo
(parlando della mia generazione)
spero di morire prima di diventare vecchio.

Frustrazioni, disagio, famiglie disfunzionali, disturbi della personalità: gli Who hanno costruito il loro nocciolo poetico su questa materia dolente, il vissuto del leader Pete Townshend bambino abusato, giovane problematico e, dopo anni di dipendenze e di sofferenze, adulto gentile e forse pacificato.

Quel furore scenico, fatta la tara dell’épater le bourgeois, aveva un senso e terrorizzava. Michelangelo Antonioni, quando si trovò a girare la scena degli strumenti distrutti per Blow-up, sostituì gli ingestibili Who con i più mansueti Yardbirds. Perché gli Who, frutto avvelenato del tardo beat, seppero fare piazza pulita di tutte quelle chitarrine leziose e di tutti quei coretti dolci per un concentrato di energia e veemenza che ben si accordava con quanto avevano da dire.

L’agitazione di Townshend sul palco, i suoi mulinelli con le braccia, le sue furiose pennate, l’uso della distorsione e del feedback erano un sano esercizio di maleducazione contro oceani di melensaggine adolescenziale. Erano, in qualche modo, una lezione di scarna energia e di concentrazione di cui avrebbero fatto tesoro l’hard rock e il punk.

Fateci caso: il solismo negli Who, che pure sono una band di eccellenti musicisti (di Moon ed Entwistle si è detto, Townshend figura al decimo posto nella classifica di Rolling Stone dei più grandi chitarristi) è bandito. Un gruppo compatto, granitico, che in un’epoca di grandi narcisismi solistici, basta pensare a Eric Clapton, non si concedeva divagazioni. È una caratteristica ammirevole.

L’altra, che non è soltanto degli Who ma appartiene in pieno a quel decennio magico a cavallo fra gli anni ’60 e i ’70, è la capacità da autodidatti di progredire, di superarsi sempre, che hanno avuto decine di grandi talenti creativi. La loro volontà di aggregare, come un grande fiume che trascina con sé pepite, tronchi e carogne, frammenti di tradizione, apporti eterogenei, appropriazioni anche indebite, scoperte, trouvailles. Come il Pete Townshend che per comporre Tommy si va a studiare Wagner e La traviata, che per le sue prime prove ai sintetizzatori si lascia catturare da Terry Riley padre del minimalismo (ne viene fuori quella gemma perfetta che è Baba O’Riley, con quel suo omaggio toccante alla “teenage wasteland”, la terra desolata degli adolescenti).

Così, la loro progressione è entrata negli annali del rock. Con album che in molti continuiamo a riascoltare. A quick one del 1966 che contiene la prima mini-opera rock di Townshend. The Who sell out del 1967 che mette in scena una radio privata con tanto di spot falsi quanto sarcastici (e con l’inno masturbatorio Mary Ann with the shaky hand). La straordinaria opera rock Tommy del 1969, al netto di tutte le lungaggini e le farragini, è l’ambizione e il coraggio in questo caso che contano, la capacità di “see for miles”, di vedere a miglia di distanza, come proclama un loro classico: la storia del ragazzo autistico – sordo, cieco e muto a causa di violenze familiari – che si riscatta diventando campione di flipper e guru. L’album perfetto Who’s next del 1971, il mio preferito, neanche una canzone sbagliata: con Baba O’Riley, la cocente disillusione di Won’t get fooled again, l’anamnesi compassionevole del borderline che è Behind blue eyes (di recente Townshend ha dichiarato che è perfetta per descrivere i neonazisti), la struggente canzone d’amore The song is over. Fino all’altra rock opera del 1973, Quadrophenia, che mette in scena la guerra tra mod e rocker in un’Inghilterra attraversata dai conflitti e dai destini individuali nella macina.

Il resto è routine più che onorevole, ma il periodo 1965-1973 basta e avanza a fare la storia. Gli Who, dagli anni ’80, si sono sciolti e riformati per gestire il lascito. Pete Townshend ha intrapreso una bella carriera solista, è diventato consultant editor della Faber & Faber, la casa editrice che fu di T. S. Eliot, ha pubblicato un bel volume di racconti (in Italia lo ha mandato in libreria Minimun Fax: Fish & chips, 1999) e, di recente, una notevole autobiografia tradotta in italiano da Tommaso Labranca (Who I am, Rizzoli, 2013).

A me, da vecchio ascoltatore, rimane un debito di gratitudine nei loro confronti. Per la meravigliosa musica. E perché l’invocazione di Tommy (“See me, feel me, touch me, heal me”, guardami, sentimi, toccami, guariscimi) è in fondo la nostra.

The Who, Mediolanum Forum di Assago (19 settembre)

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