Premio della giuria al Sundance Festival 2015, “The Wolfpack” della giovane regista Crystal Moselle racconta la parabola di sei fratelli “salvati” dal cinema
Che tipo di legame può nascere con il mondo dopo una lunga esistenza lontana dalla sua realtà? La esordiente regista Crystal Moselle approfondisce le sfumature della risposta nel suo documentario The Wolfpack, vincitore del premio della giuria al Sundance Festival 2015.
La macchina da presa fa capolino in mezzo alle stanze di un appartamento del Lower East Side di Manatthan; i sei giovani fratelli Angulo ripercorrono la loro vita trascorsa fin dall’infanzia nella solitudine delle mura domestiche, privi di rapporti con la società al di fuori. L’unico simbolico incontro con l’esterno consiste nelle scene dei tanti film che i protagonisti guardano e re-interpretano in casa con costumi e oggetti di scena fabbricati da loro stessi. Dopo che tanti giorni, anni sono passati nella solitudine, alleviata dalla creatività di questo svago, uno dei ragazzi decide alla fine di spezzare la clausura; e a poco a poco il desiderio sopito di libertà si ridesta anche nell’animo degli altri.
Con un’impostazione chiara tanto nelle scelte stilistiche quanto nelle intenzioni, la regista sviluppa un graduale, completo itinerario di rinascita. I racconti dei fratelli, insieme o singolarmente, si mescolano in un intreccio emotivo pacato, che ne valorizza i momenti più intensi, senza però denotarli con troppa vivacità. In ogni istante dell’evento descritto lo sguardo della regista insiste sul coraggio sempre più consapevole dei ragazzi. Il che permette di sospendere ogni drastico giudizio nei confronti della responsabilità della loro condizione da parte dell’educazione paterna: non si nasconde la malinconia dei fratelli, ma tutto è trattato con rispetto, comprensione, e così prevalgono i benefici del cambiamento e della conquista di autonomia per tutti i componenti della famiglia Angulo.
Accanto all’autenticità dell’impronta registica si assiste a una particolare riflessione autoreferenziale sul ruolo del cinema, concepito non solo come medium narrativo ma anche come personaggio dell’opera. Il montaggio tra inquadrature quasi claustrofobiche, clip di filmati amatoriali degli Angulo e infine riprese più ampie e luminose riproduce la corsa verso il traguardo dei protagonisti: e il cinema, inteso come passatempo principale dei sei fratelli, lenisce il loro isolamento e con le sue innumerevoli storie li stimola a cercare la loro al di là delle finestre dell’abitazione. Non è dunque un caso, se il documentario, il cui soggetto ha un’origine assolutamente reale, prende poi in prestito e adatta le categorie esclusivamente formali del viaggio dell’eroe, o in questo caso degli eroi, tipico delle sceneggiature del cinema di finzione, per organizzare in modo più avvincente il ritmo e il flusso di emozioni dell’argomento.
The Wolfpack diventa così un inno sereno all’umanità. Crystal Moselle si pone al servizio del suo stesso prodotto; prima di tradurre questo vero mito moderno della caverna nel linguaggio cinematografico, l’autrice sceglie in prima persona di ascoltare semplicemente gli avvenimenti dagli Angulo, con attenzione e sincerità. Ecco perché anche lo spettatore è in grado di fare altrettanto, e di cogliere meglio la purezza del messaggio.