A venticinque anni dalla scomparsa del rocker più dada e chitarrista più compulsivo, applaudito non solo dai suoi fans ma anche da grandi direttori d’orchestra come Zubin Metha e Pierre Boulez, il suo ultimo capolavoro, “The Yellow Shark”, è oggetto di una riscoperta sorprendente. Da Venezia a Roma passando per Milano
Uno, due, tre, quattro, cinque. Che cosa ci fanno cinque squali gialli in giro per l’Italia? É vero che nel 2018 corrono venticinque anni dalla morte di Frank Zappa (1940-1993) e dal suo lavoro di addio, The Yellow Shark, ma cinque Squali nell’onda di quindici giorni (28 settembre – 12 ottobre) sono una coincidenza sorprendente. Anche perché sono diversi fra loro, con qualche incrocio ed equivoco.
In Biennale
Venerdì 28 settembre va in scena al Teatro Goldoni di Venezia (ore 20), quel ch’è annunciato il primo The Yellow Shark (integrale) eseguito in Italia, scelto ad aprire una Biennale Musica (sottotitolo: Crossing the Atlantic) che ha già fatto parlare di sé per aver avuto il coraggio, per alcuni la pavidità, di riconoscere un Leone d’Oro alla Carriera a Keith Jarrett, che però non potrà ritirarlo né suonare l’annunciato concerto di solo piano perché, ahimé, forse ghermito di nuovo da quella sindrome da stanchezza esistenziale che lo ha tenuto diversi anni lontano dalle scene. A Venezia si ascolta l’ultima opera di Zappa eseguita dal PMCE, Parco della Musica Contemporanea Ensemble, diretto da Tonino Battista, con il performer David Moss, in collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto.
In tournée
Il 10 ottobre, proprio al Parco della Musica di Roma da cui viene il gruppo optato dalla Biennale, nella Sala Sinopoli (ore 21) si esegue invece un altro Squalo Giallo che viene dal nord, dall’ Accademia del Teatro alla Scala, che lo esegue (integralmente?) con l’ Ensemble Giorgio Bernasconi (gruppo stabile composto dagli allievi), diretto nientemeno che da Peter Rundell, musicista di rispetto, che lo ha messo in disco nel ’93 con Frank Zappa al fianco, già malato ma incontentabile come sempre. Un gioco di scambi abbastanza curioso.
Non basta. Il 6 e 7 ottobre l’Ensemble dell’Accademia della Scala dà il suo Squalo Giallo al Piccolo Teatro Studio di Milano, e il 12 ottobre lo porta al Teatro Valli di Reggio Emilia.
Non basta ancora. Il 24 luglio The Yellow Shark versione Accademia Scala è già stato eseguito al Festival di Stresa, dunque venerdì alla Biennale non si ascolta la prima italiana del canto dello squalo di Francesco Zappa? Tutto dipende dalla forma. Quale il più integrale e/o teatrale? Vedremo.
I piccioni di Venezia.
Chi ama il rocker più dada, il chitarrista più compulsivo (duemila ore fra assoli e interventi in gruppo), il musicista più provocatorio e “messo di traverso”, deve solo rallegrarsi che, venticinque anni dopo, più d’uno senta l’urgenza di tenere in vita il mondo allucinato, ma non drogato, della sua musica. The Yellow Shark è il riassunto di tutte le musiche zappiane possibili e l’annuncio di quelle che sarebbero potute venire, se un tumore alla prostata non avesse spezzato Frank a 53 anni non ancora compiuti. Un riassunto in forma di teatro o meta-concerto, fate voi, in 19 episodi per orchestra e libere combinazioni strumentali, che cita il passato di Zappa (Uncle Meat) e ne abbozza il futuro permettendosi, al solito, qualunque pernacchia, compreso un delizioso brano dal titolo Questi cazzi di piccione (sic), dedicato all’animale più diffuso a Venezia.
L’impuro folle
Che cosa rende unico Frank Zappa sulla scena del Nostro Tempo? Tutto, col conforto di un prezioso onore che l’avanguardia e l’accademia più circondate di rispetto gli hanno riservato, senza esserne richieste. Citiamo almeno quattro nomi “alti” che hanno aperto le sue pagine impure venate di follia, in ordine di apparizione. Nel 1970, per l’esecuzione dal vivo di 200 Motels, musical molto fuori di testa, sul podio della Los Angeles Philharmonic c’era Zubin Mehta, ai tempi ancora giocoso e non allineato, che pure curò in quegli anni le incursioni classiche di Ravi Shankar con i suoi Concerti per sitar e orchestra.
Nel 1984, il severissimo Pierre Boulez diresse e registrò i tre brani acustici dell’album The Perfect Stranger con il suo Ensemble Intercontemporain. No, fece di più, li commissionò; lui, il papa laico dell’Avanguardia europea, che poteva permettersi di scomunicare chiunque non gli andasse a genio.
Nel 1983-84, Kent Nagano trovò giusto e bello registrare con la London Symphony due album di Favourites zappiani, che però Frank trattò con un certo sprezzo, per lo scarso rigore metrico con cui Nagano avrebbe risolto alcune sue intricatissime metriche. (Mentre a Boulez inviò pubblico ringraziamento per aver avuto “la pazienza di pretendere accurata esecuzione delle terzine killer di pagina otto”).
E perché poteva permettersi tanto sussiego, Mr Zappa? Perché è “un autore che potrebbe e dovrebbe essere eseguito molto di più, come Edgar Varèse, suo maestro e riferimento, ma ha un problema: è un autore difficilissimo, che ho studiato, e che ha bisogno di prove più del normale”. Parola di Riccardo Chailly.
Da non confondere con l’espressione artistica
No. Non c’è modo di restringere Frank Zappa nel recinto del rock, del pop, del jazz, di ogni fusion possibile, della sperimentazione o dell’avanguardia, con la a minuscola o maiuscola. Lo dimostrano sessanta dischi ufficiali più trenta postumi, bootleg esclusi; e un mare di musica suonata e composta, improvvisata e scritta, in una vita veramente breve, su ogni nota della quale potrebbe andar bene l’avvertenza che Zappa mise a commento di The Perfect Stranger: “Tutto il materiale qui incluso è per soli scopi d’intrattenimento, e non può essere confuso con ogni altra forma di espressione artistica”.
Crossing the Atlantic
“Abbiate fiducia nell’insondata forza dell’uomo – diceva Ralph Waldo Emerson (1803-1882) a un gruppo di giovani americani–. Noi abbiamo ascoltato troppo a lungo le muse cortigiane dell’Europa… Noi cammineremo sui nostri piedi, lavoreremo con le nostre mani, esprimeremo il nostro pensiero. Affondate nell’oggi e avrete il mondo antico e futuro insieme”. L’America e tutte le forme della sua cultura si sono mosse a seguire la bandiera di Emerson con la spontaneità di una banda da Camp March. Lo fece Charles Ives, il più grande di tutti; lo fece il più americano dei francesi, Edgar Varèse; lo fecero John Cage, Henry Cowell, Conlon Nancarrow. Lo ha fatto Frank Zappa, così, senza proclami, perché era nel suo dna ed è giusto che sia lui ad aprire una Biennale Musica che s’intitola Crossing the Atlantic e, tra gli appuntamenti, ne dedica uno a Elliott Carter (sabato 29 settembre, Arsenale, ore 20), uno alla chitarra elettrica reinventata da Steve Reich, John Cage, Christian Wolff, Fausto Romitelli (domenica 30, Arsenale, ore 23), uno alla Maria de Buenos Aires di Astor Piazzolla (2 ottobre, Arsenale, ore 20).