Thomas Ligotti, maestro dell’horror filosofico, ci mostra tutta l’insensatezza della vita umana con i suoi racconti e il suo saggio “La Cospirazione contro la razza umana”
The Zero Theorem è un film del 2013 di Terry Gilliam ambientato in un futuro distopico. Racconta di uno strano personaggio, Qohen Leth, che aspetta, da vent’anni, una misteriosa telefonata che dovrebbe rivelargli il senso della vita. A un certo punto viene incaricato di risolvere una complicatissima equazione (il teorema del titolo) senza sapere però a cosa serve. Salvo poi scoprire che l’equazione, una volta decifrata, dimostrerà che all is for nothing, che non c’è nessun senso alla vita – e infatti la fatidica telefonata, proprio come Godot, non arriverà mia. È come l’avveramento della famosa massima del premio Nobel per la fisica Steven Weinberg: «più a fondo conosciamo l’universo, più sembra privo di significato».
Al netto dell’atmosfera di fondo e dell’assunto di base, si potrebbe facilmente affiancare, a questo film assolutamente surreale, l’opera narrativa di Thomas Ligotti. Prolifico scrittore di racconti, Ligotti basa la maggior parte delle sue storie sulla consapevolezza che, per quanto possiamo illuderci, vivere non va bene e non c’è nessun significato ultimo all’esistenza. Lo aveva già capito Lovecraft quando ne Le montagne della follia racconta un mito primordiale sulle «Cose Antiche che dovrebbero aver creato tutta la vita sulla terra per celia o errore».
Detto in soldoni: la vita è un incubo che finisce solo quando moriamo. Ligotti ha raccontato a Andrea Coccia su Pixarthinking che la sua emozione più forte è sempre stata la paura, in quella sua forma particolare che è l’ansia. Sono queste le linee guida dei suoi racconti.
Erede del Poe di Berenice (dove si legge: «La miseria è molteplice. La disgrazia del mondo è multiforme») e del Lovecraft di Arthur Jermyn (che inizia così: «La vita è una cosa orribile»), Teatro Grottesco, l’ultima raccolta di racconti di Ligotti pubblicata in Italia, mette in scena dei narratori consapevoli di questo stato di cose:
Da sempre ho l’impressione che la mia esistenza consista puramente ed esclusivamente delle più scandalose insensatezze.
(Il pagliaccio marionetta)
Ciononostante per Ligotti l’angoscia, l’ansia, la paura, l’incubo, devono essere comunicati non per via assertiva, ma attraverso la narrazione. Eppure scarsamente pieni di eventi sono i suoi racconti. Potrebbe valere anche in questo caso l’impressione che Giuseppe Genna riporta in Io Sono a proposito di Lovecraft: non se ne ricorda i personaggi, non ricorda le azioni compiute. Se, dunque, neanche la narrazione è l’aspetto principale della modalità di scrittura di Ligotti, da dove nasce il senso di terrore per l’essere che trasmettono i suoi scritti?
Ancora una volta può venirci in aiuto il genio di Lovecraft. In una lettera del 1935 a Catherine L. Moore, l’autore statunitense scriveva:
Se vuole essere arte autentica, deve raffigurare in primis la cristallizzazione o la simbolizzazione di una precisa disposizione d’animo umana – non la tentata delineazione degli eventi, perché gli “eventi” coinvolti sono, si capisce, largamente fittizi e impossibili. Questi eventi dovrebbero restare in secondo piano, perché in primo c’è l’atmosfera. Perciò tutta la vera arte dev’essere in qualche modo legata alla verità, e nel caso dell’arte soprannaturale l’enfasi deve cadere sull’unico fattore che rappresenta la verità: di certo non gli eventi (!!!) ma l’intensa e infruttuosa aspirazione umana, simboleggiata dal finto rovesciamento delle leggi cosmiche e dal finto superamento dell’esperienza umana possibile.
L’atmosfera creata da Lovecraft è quella di una vita-malignità che sarebbe meglio non scontare – e lo dice Ligotti stesso nel suo saggio La Cospirazione contro la razza umana. L’atmosfera di Ligotti è la stessa: non è l’orrore nel mondo in cui le forze del bene si scontrano contro quelle del male (come avviene nella maggior parte di film di esorcismo classici), ma è l’orrore del mondo. Il mondo creato dalla sua narrativa esiste in uno stato di rovina, non in un processo – come ha dichiarato al New Yorker. Il male, la sofferenza, la tragedia, sono connaturati all’essenza stessa della vita umana.
Eccola qui l’atmosfera di Ligotti. La maggior parte dei suoi racconti inizia con una situazione banale (un trasloco, una scena di lavoro in fabbrica, un incontro fra artisti), in una geografia a metà fra la veglia e il sogno. Gli eventi che si dipanano nel corso delle pagine non sempre sono coerenti, a volte si fa fatica a seguirli perché Ligotti non ci racconta tutto: una delle tecniche principali con le quali evoca la sua atmosfera perturbante è la reticenza. Il racconto non svela mai tutto, le zone d’ombra sono molte di più di quelle illuminate. La stessa voce narrante perde ogni patente d’onniscienza e racconta solamente porzioni dell’universo di finzione. E non mancano le contraddizioni. Il racconto che apre Teatro Grottesco si intitola Purezza, ma già dalle prime righe l’ambiente rappresentato trasuda sporcizia e desolazione: «siamo continuamente circondati e coperti da pidocchi». Nessuna empatia è possibile con questi personaggi: ne sappiamo troppo poco per potervi entrare in contatto e troppo spesso Ligotti li colpisce con humor nero e allucinato sarcasmo – che non risparmia molte di quelle che considera illusioni del genere umano: un bersaglio costante sono le società che si fondano sulla paura e sulla superstizione. In particolar modo è attaccato il principio di Nazione e di Fede che, secondo il filosofo Zapffe (punto di riferimento costante nelle riflessioni di Ligotti), sono una precisa strategia per ingannare la coscienza e consentire all’umanità di continuare a vivere. Zapffe la chiama “ancoraggio”: per stabilizzare le nostre vite nelle acque tempestose del caos, cospiriamo per ancorarle in verità metafisiche e istituzionalizzate – Dio, Moralità, Legge naturale, Patria, Famiglia – che ci inebriano facendoci sentire solenni, autentici e al sicuro nei nostri letti. Oltre a questa modalità, il filosofo svedese ne individua altre tre (Isolamento, Distrazione e Sublimazione), ognuna delle quali è messa alla prova dal Teatro Grottesco.
Il filo di Arianna per seguire i tredici racconti che formano la raccolta è dato dalla consapevolezza che la coscienza, madre di tutti gli orrori, ci ha fatto diventare suscettibili di pensieri orribili e allarmanti che rendono la vita insopportabile. L’unico modo per poter continuare a vivere è ingannarla. Si legge ne La cospirazione contro la razza umana:
La coscienza ci costringe alla posizione paradossale di doverci sforzare a vivere inconsapevolmente ciò che siamo: pezzi di carne destinata a corrodersi su ossa che vanno disgregandosi […]. La vita è una truffa che perpetriamo ai danni di noi stessi.
Per Ligotti possiamo tollerare l’esistenza solo convincendoci di non essere quello che siamo: cose senza valore o fondamento: «non possiamo vivere se non auto-ingannandoci, mentendo a noi stessi su noi stessi». Da questa prospettiva il mondo è discutibile e inutile per principio. Per cui tanto vale smettere di riprodurci.
Se queste parole ora vi suonano familiari probabilmente è perché avete guardato True Detective e, quando Rust dice che la coscienza è un errore nella storia dell’evoluzione umana, sta parafrasando proprio Ligotti.
Questa visione della vita ha fatto parlare di horror filosofico e, non a caso, molti dei racconti di Teatro Grottesco non sono parchi del lessico di settore, tra epifenomeni e metafisiche. La stessa narrazione, a ben vedere, sembra una messa in scena della Cospirazione: personaggi che vanno incontro a una scissione del proprio ego, all’annullamento assoluto, la rappresentazione di un «mondo-baracconata dove tutto, in definitiva, è eccentrico e in definitiva ridicolo». Il male è dato come qualcosa che non sconvolge nemmeno i personaggi, non provoca reazioni, è vissuto con estrema (e disturbante per i lettori) naturalezza: forse perché è l’essenza stessa della creazione? Insensatezza è una delle parole che scandiscono il ritmo della narrazione. I personaggi la percepiscono, eppure non sanno opporvisi: «tutti prendevano questo o quell’altro farmaco per condurre una vita normale» ci dice il narratore di A favore di un’azione punitiva. Il protagonista de Il supervisore temporaneo ci racconto che «Poiché non lavoravo più non potevo permettermi di rinnovare le ricette e acquistare i medicinali necessari a tollerare la mia esistenza». Il farmaco diviene, così, una metafora per rappresentare gli autoinganni e le illusioni che l’uomo si costruisce per sopire l’attività della coscienza e trovare sopportabile la vita.
L’alienazione causata dal lavoro crea lo stesso effetto: i personaggi-operai si sentono «cittadini» dell’azienda per cui lavorano e, allo stesso tempo, si considerano in ergastolo:
Né io né i miei colleghi ricordiamo più da quanto tempo lavoriamo qui, né quanti anni abbiamo, e tuttavia il nostro ritmo di lavoro e la nostra produttività continuano a crescere. […] Lavorare a ritmo furioso, incastrare uno nell’altro i pezzetti di metallo, tiene la mente un po’ più lontana da certi pensieri.
Lo sgomento esistenziale che ne deriva viene trasposto in dolore fisico, addominale: nausea, mal di pancia, diarrea. Non c’è l’anima, non c’è l’io, c’è solo il corpo, un corpo che serve a scansare ogni pericolo di trascendenza. L’attenzione alla carnalità riporta al tangibile e al concreto l’incubo dei deliri e dell’allucinazione schizofrenica. E in questo modo si mette in scena la consapevolezza perturbante che non siamo gli esseri idealizzati, integri e indivisi che pensavamo.
La prosa di Ligotti, con le sue reticenze, con il sovrapporsi dei piani, le varie mise en abyme, apre una finestra sull’abisso per mostrare – e non spiegare – il caos intrinseco delle cose: «Che cosa significa essere vivi se non corteggiare ogni attimo il disastro e la sofferenza?» (Lunapark alle stazioni di rifornimento). Non sarà un caso che il racconto che conclude la raccolta si intitola L’ombra, l’oscurità. Il messaggio è dei più desolanti: voltata l’ultima pagina resta solo l’orrore. Questa è la realtà, secondo Ligotti. Questa è l’unica cosa che da sempre è reale, per quanto irreale possa sembrare.