Ti ho sposato per allegria: le lacrime si vedono davvero solo tra le risate

In Teatro

Con una messa in scena convincente e interpreti di livello, al Menotti fino al 13 aprile, il più famoso lavoro drammaturgico di Natalia Ginzburg svela una sapiente fotografia dell’Italia di allora (e di oggi), che commuove con sottigliezza sotto la forma di una commedia divertente e godibilissima,

È diffusa l’idea che, a differenza di quella da romanziera, la carriera d’autrice teatrale di Natalia Ginzburg, tra i caposaldi – spesso sottovalutata – del Novecento italiano, sia piuttosto infelice. Certo non l’hanno aiutata alcune, anche recenti, rappresentazioni spinte soprattutto dall’ego di chi le ha portate in scena. E di certo è sfidante, tanto più oggi, l’abbondanza di parole di cui ha riempito i suoi copioni. Eppure, l’edizione del testo forse più famoso, Ti ho sposato per allegria, che arriva al Teatro Menotti fino a domenica 13 aprile, viene a rendere giustizia di tutto quello che, invece, funziona. Merito di una regia, firmata Emilio Russo, che si conserva rispettosa del testo, a suo modo filologica, pur consentendosi la libertà di un’operazione di chiarificazione, e soprattutto di interpreti che scavano dentro di sè per restituire, ai loro personaggi, tutta la loro possibile verità. Emerge in effetti tutta, dietro l’apparente svagatezza di Giuliana, una affascinante e lieve Marianella Bargilli, la goffaggine di Pietro, un composto Giampiero Ingrassia vittima paradigmatica di un femminile che forse considera debordante e che oggi possiamo serenamente chiamare rivendicativo. Più che quello della moglie, sposata da una manciata di giorni, quello di una madre, qui Lucia Vasini piena di verve e spietatezza.

Ed è proprio la segreta vicinanza tra queste due donne, in apparenza agli antipodi, e la loro acuminata intelligenza a emergere dal serratissimo scambio di battute su cui si regge questo lavoro, a restituirne tutta la contemporaneità anche alla distanza di un tempo dentro cui Ginzburg si calava con decisione, e che tuttavia oggi, se ben raccontata, non la lega. Da un tempo in cui il divorzio non esisteva, arriva la storia di una coppia chiamata a confrontarsi, la prima volta che la mamma del neosposo arriva in una casa in costruzzione,con una famiglia giudicante e bigotta, che (apparentemente?) non può capire il matrimonio tra un avvocato benestante e mammone e una giovane donna di origini povere e libertine quanto basta da innamorarsi del suddetto avvocato nel corso di una festa bagnata da alcool in abbondanza e da rivendicare amiche abituate a vivere la propria vita relazionale con disinvoltura.

Una donna nuova, per certi versi, come vorrebbe forse essere Ginestra, la sorella dell’avvocato, un’efficace Claudia Donadoni. Giuliana, tuttavia, porte sulle spalle tutta la storia di un conflitto di classe a cui è pronta a riportarla, con sagace lucidità, Vittoria, interpretata da Viola Lucio, domestica che fa conservare le vestigia di una aristocrazia ormai al tramonto e un po’ ridicola, che lei si prende la libertà di sbertucciare con sorridente accondiscendenza, decidendo se e come mettere a disposizione il proprio, concreto ed essenziale, supporto, solo quando i padroni di casa hanno dimpstrato la loro sostanziale inettitudine di vecchi (o nuovi) borghesi. Lontano, però, da grottesche contrapposizioni, è però tra le donne che si instaura una misteriosa complicità che – senza le parole per dirselo, ma con i gesti per farselo facilmente capire – si trovano segretamente complici, quando parlano una lingua fatta di scontri e battibecchi, salacemente crudeli, che forse sono soltanto apparenza: o invece, nell’attaccare le reciproche mancanze, svelano le fondamenta su cui si poggia questa unione: la sotterranea disperazione di due persone chiamate a salvarsi a vicenda da un passato di cui avevano necessità di fuggire, comunque fosse, e l’hanno fatto attraverso uno strumento pieno di intelligenza, tutt’altro che innocente, l’allegria, che non è sforzo di astrarsi dalla realtà, ma la scelta di ciò a cui dare valore.

Se il contenitore è quello stereotipicamente classico del dramma borghese – acuito, ad evidenziare la finzione, dai manichini grotteschi e inquietanti di Raffaella Montalto disseminati per la scena – è proprio nella surrealtà dello scontro tra mondo di prima e quello (forse) a venire, fra decadenza e nuove consapevolezze, anche a prezzo di qualche compromesso, che si svela l’umanità profonda e le lacrime ingoiate che si nascondono dietro le mura di ogni casa, magari coperte dalle canzonette degli anni del boom, che la regia di Russo fa suonare intorno alle ampie finestre che si aprono sulla sera che scende e un mondo tenuto lontano. E su cui, tuttavia, le parole di Ginzburg e la dedizione di interpreti azzeccati gettano ancora una luce capace di insegnarci rappresentandolo sotto una manciata di maschere esemplari il segreto, struggente, della vita vera.

(Visited 1 times, 1 visits today)