A pochi giorni dal debutto in prima assoluta alla Scala, il compositore siciliano ci parla della sua nuova opera “Ti vedo, ti sento, mi perdo”. Ma non solo. L’occasione è ghiotta per affrontare altri temi connaturati alla sua poetica musicale. Il rapporto con l’immaginazione, il barocco, il mito e la storia, la scrittura e altro ancora. Pregustando l’evento
La musica di Salvatore Sciarrino nasconde universi inconsueti e molteplici. Nelle sue composizioni la riflessione estetico-filosofica incontra l’artigianato musicale, l’antico si fonde con il moderno. Ne abbiamo parlato con il maestro in occasione dell’attesa prima assoluta di Ti vedo, ti sento, mi perdo che debutta al Teatro alla Scala il prossimo 14 novembre.
Il compositore è protagonista della XXIV edizione di Milano Musica e l’opera, che ha come argomento la vita avventurosa del musicista barocco Alessandro Stradella, rappresenta lo zenit di una serie di iniziative milanesi dedicate al compositore palermitano.
Come nasce la musica in Salvatore Sciarrino?
Nasce con l’immaginazione di qualcosa di sonoro, che talvolta è soltanto il desiderio di qualche cosa di vago. Ci sono vari sistemi per definirlo: si prendono degli appunti, i quali vengono approfonditi e sviluppati, per esempio attraverso i diagrammi di flusso (gli schemi che usa per comporre, alla sua metodologia è dedicata una mostra, Il segno e il suono, a Palazzo Reale fino al 3 dicembre ndr).
Quindi gesto e suono si coniugano nella sua musica.
Io procedo in un modo diverso da tanti altri compositori, perché possiedo un’immaginazione sonora e cerco di raggiungere e realizzare un’idea, mentre gli altri lavorano spesso per aggiunta di elementi e non guardano invece al risultato finale. Quando vado alle prove non ho bisogno della partitura: non perché la conosco meglio, ma perché so qual è il risultato finale.
Un altro elemento importante nella sua poetica è la scrittura. Nel programma di sala di Milano Musica è riportata una sua citazione che a me piace molto: «non ero uno scrittore, lo sono diventato mio malgrado».
Io penso di non avere la stoffa dello scrittore, però ho scritto molto, cominciando tanto tempo fa con le note di programma, che in realtà sono sempre state estetico-filosofiche. Io non cerco di spiegare, ma piuttosto di fornire dei concetti che possono essere utili per predisporre l’ascolto. Concetti che possono riguardare il mio pezzo, ma anche il modo di essere nella realtà. Le prime note di sala erano schematiche ed elementari: presentavo l’organico e aggiungevo poche parole, ma non oltre. A poco, a poco, ho cominciato a scrivere note che sono delle riflessioni estetiche e sulla percezione – che allora non faceva nessuno – e che sono la base di un linguaggio più naturale. La mia è più psicoterapia che musica. La mia musica ha dei tratti anomali rispetto all’accademia, però, allo stesso tempo, ha dei legami così forti con la tradizione, da non distinguere il moderno dall’antico. Questo mi rende, non post-modern, ma addirittura fusion.
Fusion. Definizione interessante…
Io posso usare percorsi paralleli al mio che sono di altri autori, come per esempio nell’opera Ti vedo, ti sento, mi perdo con Alessandro Stradella. I pezzi del compositore barocco vengono rielaborati per orchestra moderna e ci indicano a cosa possono preludere queste musiche di metà Seicento, a che cosa possono alludere di quello che noi conosciamo. Il pezzo di apertura dell’opera sembra Chopin, una musica che proviene da un pianoforte lontano. In realtà non c’è una nota di Chopin in tutto Stradella, però naturalmente è mio il modo di porgere la musica che aiuta a cogliere queste somiglianze.
Ha anticipato una delle mie domande. Uno dei temi che trovo molto presenti nella sua musica è proprio il dialogo tra passato e presente, antico e moderno.
Questo dialogo può essere contrasto, anche violento. Intanto perché non c’è generazione che non contesti quella precedente. È proprio nel meccanismo della tradizione e della famiglia che la nuova generazione cambi il modo di pensare. Il dialogo tra genitori e figli è un dialogo che nasce molto contrastato, molto oppositivo.
Io vedo altresì come tema ricorrente il dialogo che esiste tra mito e storia.
Forse sì… Però questi due aspetti si integrano, invece nel dialogo tra generazioni diverse è difficile l’integrazione, perché ognuno cerca di difendere la propria libertà. Si dice “libertà”, ma in verità è la propria individualità in contrasto con quella dell’altro. Perché nel rapporto tra generazioni ogni affermazione produce una reazione. Un giovane quando apprende imita quello che si fa, non quello che si dice. Anche nella didattica succede così: senza contrasti e senza prese di posizione categoriche. Io credo che ogni affermazione categorica non solo provochi una reazione, ma racchiuda un nucleo di bugie e di menzogne perché si vuole arrestare quello che non si può fermare. O si tenta di oggettivare una situazione fluida.
Ritorniamo all’opera Ti vedo, ti sento, mi perdo. Stradella è stato un grande compositore del periodo barocco…
Questo lo sto scoprendo adesso. Anzi dobbiamo ancora scoprirlo. Studiandolo, lui ha cambiato la mia vita, ora c’è una prospettiva diversa che prima non c’era. Inoltre, ci sono dei parallelismi tra certe posizioni mie e sue: l’importanza del testo, l’utilizzo del canto in un certo modo – che nelle arie privilegia la recitazione e nei recitativi il canto – aspetti che fanno litigare i due protagonisti dell’opera.
Come si è avvicinato alla musica di Stradella e a questo Barocco?
Un po’ casualmente. Ero rimasto incuriosito da questo autore: dapprima da alcune letture un po’ romanzate sulla sua vita, in seguito dall’aver trovato in casa un facsimile di sue cantate, e da lì è nato non solo il cuore dell’opera, ma la spinta per scriverla. Queste cantate avevano testi così inusitati, con spunti di realtà, come per esempio «Si salvi chi può», con un testo anti-aristocratico piuttosto forte dal punto di vista socio-politico. Scoprii inoltre che l’aria vicina sembra Chopin. Allora, a quel punto, il desiderio di costruire quest’opera si è mosso.
È da tanto che si parlava della sua nuova opera…
Ci lavoro da molti anni, sin dal 2005, 2006, ma poi per motivi contrattuali non era andata in porto. L’opera è stata promossa come l’ultima fase di un lungo processo di avvicinamento alla mia musica da parte della Staatsoper di Berlino, la quale ha messo in scena tanti miei lavori. Probabilmente, Ti vedo, ti sento, mi perdo è la sesta opera che viene inserita nel loro cartellone nel giro di pochi anni: hanno eseguito Vanitas, Lohengrin per due anni consecutivi (perché aveva avuto tanto successo), Macbeth, Luci mie traditrici (entrambe con la straordinaria regia di Flimm,) e altri miei lavori. Cercando un co-produttore per Ti vedo, ti sento, mi perdo, la Scala – che già era molto interessata a questo progetto e comunque a realizzare un mio lavoro – si è fatta avanti, ed è nata questa produzione.
Lei sta seguendo le prove in prima persona?
Sì, perché sono essenziali. Non solo perché ci sono cose che prendono forma nel momento in cui vengono realizzate, ma proprio perché lo svelamento di qualcosa che nasce è interessante anche per chi lo ha progettato. Però, bisogna avere pazienza e cercare di raggiungere l’obiettivo senza troppe tensioni, poiché c’è dietro la fatica di un lungo lavoro. L’allestimento è molto ricco e richiede molta presenza in scena per tutti. Il libretto invece è più schematico, a scene bloccate, e di fatto l’opera potrebbe essere rappresentata nello stile del teatro povero. Flimm ha la tendenza a fare spettacoli pieni di movimento, energia e molto ironici (che a me piacciono molto).
Jürgen Flimm è un regista con cui ha avuto molto a che fare.
Questa è la terza produzione che realizziamo insieme perché gli altri spettacoli presentati alla Staatsoper sono stati curati da altri registi. Il teatro di Lubecca vuole fare Luci mie traditrici l’anno prossimo, invece il Teatro di Braunschweig farà La porta della legge.
Tanta carne al fuoco…
Ogni anno c’è una produzione mia in Germania. In realtà queste opere sono nate proprio per la Germania, in italiano. Tutte le opere a partire dall’89.
Come mai?
Loro hanno riscoperto un’antica tradizione italiana e la mia musica.
E perché in Germania e non in Italia?
In Italia si produce sempre meno. Il contemporaneo una volta era più amato, ora è quasi demonizzato e questo mi dispiace. Perché è demonizzata la musica classica, come se fosse una cosa punitiva.
Quest’anno, in occasione del suo compleanno, le hanno dedicato molte manifestazioni.
È stato un convergere di vari elementi. Avrebbero eseguito in ogni caso un mio pezzo, poi a un certo punto ci si è resi conto della ricorrenza del 70°, aspetto che all’inizio mi ha dato fastidio perché non ho mai festeggiato un compleanno nella mia vita. Quest’anno hanno eseguito molti miei lavori, alla Philharmonie di Amburgo, a Parigi, a Basilea (per loro ho scritto una specie di congedo di Luci mie traditrici), a Palermo.
Alla Chigiana. E poi Milano Musica le ha dedicato un intero festival.
In verità, Milano Musica si era già avvicinata negli ultimi tempi, dato che ha sempre eseguito miei lavori in previsione di fare qualcosa di più organico.
Nel programma di Milano Musica emergono soprattutto due protagonisti: la voce e il flauto.
Nelle partiture per flauto ci sono alcuni elementi che non ho inventato io ma che si usavano sporadicamente. Io ho cercato di farli diventare musica, un po’ come negli Studi di Chopin – da uno spunto tecnico nasce una musica nuova, quasi come prospettive monotematiche.
A me piace molto il lavoro che ha fatto sulla voce, come nei Madrigali e in Euridice.
Io cerco di usare la voce in modo espressivo, senza essere schiacciato dai grandi modelli, né quelli della tradizione antica, né quelli della tradizione moderna.
E com’è cambiato il suo rapporto con la voce?
Io mi sono inventato un modo di usare gli elementi più semplici ed espressivi della voce, ovvero gli intervalli, in una maniera geometrica. Naturalmente sono molto asciutto e molto attento a non cadere nella facile imitazione. Se tu imiti qualcosa – come può essere Puccini – pensando di prenderne la forza, in realtà tu dimostri la tua debolezza. Devi contrapporre a tutto questo qualcosa che sia originale e che trovi altre forme di espressione. Io ci ho messo molti anni. Prima di tutto, ho scoperto che il mio modo di usare la voce non era ancora messo a punto. I Madrigali – che hanno aperto “Continente Sciarrino” a Salisburgo nel 2009 – sono nati in una maniera molto gratuita, li avevo scritto per me. Il mio segreto non è accettare le commissioni ma rifiutarle, scrivere per me e poi casomai vendere le mie cose.
L’imprevisto può essere una cosa buona?
Sempre, l’imprevisto serve. Perché se tu immagini una cosa, anche se la pensi nel dettaglio, l’esperienza di ascolto è qualcosa di completamente diverso. Io stesso posso scoprire o riscoprire il mio pezzo sotto forme completamente diverse perché ce l’ho davanti, vivo. È diverso immaginare una cosa e viverla.
Come vive le sue collaborazioni con gli esecutori più assidui?
Ci sono esecutori che sono come dei grandi amici, dei complici, altri sono più occasionali, ma se sono dei veri interpreti mi danno la vita.
Penso a Matteo Cesari e al Quartetto Prometeo con cui collabora spesso…
È stato interessante il concerto del 3 novembre (Auditorium San Fedele, Quatuor Diotima) perché loro hanno studiato il mio Quartetto n. 8 da soli ed è stata una bellissima esecuzione. Io mi sono guardato bene dal provare con loro, perché se tu arrivi all’ultimo momento e cambi qualcosa, sciupi un equilibrio straordinario, che è fatto di studio, maturazione, personalità. Quindi è meglio un errore ben fatto che una cosa giusta fatta male. La musica si prova parlando e la parola interrompe.
Come si sta facendo per l’opera alla Scala?
Tu provi e discuti, ti fermi e provi ancora, discuti, litighi magari. Cambi. In realtà quest’opera non parla di Stradella, parla di noi e anche della nostra confusione. Nell’opera ci sono anche degli episodi storicamente documentati, come il primo attentato di cui è vittima Stradella.
Nell’opera si incontrano il mito di Stradella, il grande assente, e altre cose…
Si incontrano tanti pettegolezzi e tante storie che sono vere. Il modo di presentare la sua estetica è molto curato. Non è un’opera didattica ma riesce anche a presentare quest’autore.
L’opera è studiata per raccontare un compositore che conosciamo poco…
In quest’opera qualche suo pezzo lo ascoltiamo: sentiamo «Chi nasconda il mio foco» – che ha un testo con una forte estetica romantica – nel prologo e in una pausa delle prove in scena. L’intermezzo è un madrigale di Gesualdo. Avevo scritto un altro intermezzo ma poi l’ho tolto completamente, era interessante ma forse non era adatto. In questo momento dell’opera ho bisogno di voltare pagina e di condurre alla parte del racconto più tragico. Ci sono inoltre tre canzonette e una breve aria, un frammento che lui scrive per il Giasone di Cavalli. In tutto sentiamo sei pezzi di Stradella e così abbiamo idea della varietà, della modernità, della grande ispirazione di quest’uomo.
Il madrigale di Gesualdo è inserito come intermezzo per dare il senso della tragicità?
No. Io mi sento parte della vecchia tradizione, dove l’eterogeneità era una componente importante. Forse è rimasta ancora adesso, Luci mie traditrici è fatta così per esempio. L’eterogeneità è sempre stata una cifra stilistica del mio linguaggio.
La sua è una musica che accoglie e invita all’ascolto.
Ho lavorato molto su quest’aspetto, dal punto di vista della riflessione filosofica e poetica. Anche altri, come John Cage e Luigi Nono, hanno parlato del silenzio e dell’ascolto, ma nello stesso tempo io ho anche studiato i meccanismi dell’intelletto perché ho una mente più scientifica. Sembra strano, ma il mio senso del timbro proviene da un’attitudine alla chimica del suono (piuttosto che dalla pittura). Avevo un talento per la pittura, ma non l’ho mai sviluppato. A un certo punto ho scoperto la musica e ho capito di voler essere un compositore. E in quel momento tutta la mia sensibilità contemporanea per la pittura si è travasata nella musica. Non è stata la pittura, ma la sensibilità moderna che mi ha fatto nascere come musicista già moderno. La cultura tradizionale ho dovuto recuperarla. Ecco perché sono così legato a quest’ultima: io continuo a studiarla. Non possiamo non prendere coscienza delle nostre origini, se non le hai non sei niente (o un “non so chi”, per citare un passaggio da Ti sento, ti vedo, mi perdo).
Quanto ha a che fare la musica con l’arte pittorica?
La musica ha ben poco a che fare con la pittura. Entrambi sono linguaggi che fanno parte della nostra personalità, però sono diversi.
Nel suo rapporto col pubblico, trovo molto affascinante l’idea che la musica debba risuonare, come un’eco, dentro lo spettatore.
Il linguaggio ha un potere incredibile, ma l’ascoltatore è il centro. Per esempio l’ascolto collettivo è una cosa molto interessante, perché ascoltando insieme uno stesso segnale, possiamo avere reazioni diverse.
Dai miei studi di musicologia ricordo il triangolo compositore – esecutore – pubblico.
La musica ha a che fare con l’affettività, non nel senso di sentimento banalmente romantico, ma nella sua componente puramente emozionale. Non è il canale razionale. Se noi facciamo passare le emozioni attraverso l’intelligenza, quest’ultima le distrugge, così come se noi pretendiamo di essere razionali con il sentimento, lo snaturiamo.
Foto di copertina @ Teatro alla Scala