Timbuktu, vittima dolente della jihad

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Corre per l’Oscar anche il bellissimo film del mauritano Sissako, che racconta lo sgomento di un paesino maliano occupato senza pietà dai militanti islamici

C’è una qualche vena di razzismo anche in Timbuktu del regista mauritano Abderrahmane Sissako, in corsa per l’Oscar al miglior film straniero dopo aver vinto tre premi di rilievo all’ultimo Festival di Cannes. Tutti con pieno merito. Nel piccolo paese del nord-est del Mali occupato militarmente da una banda di spietati jihadisti stranieri, ai quali non mancano però anche gli agganci locali, spicca infatti subito la distanza di lingua, cultura e stile di vita, che fa degli abitanti della cittadina e dei dintorni (pastori, pescatori) degli assoluti paria.

Non capiscono la lingua con cui nel loro paese ora si amministra la giustizia (condanne a morte, lapidazioni e fustigazioni comprese, tutte all’ordine del giorno) attraverso la sharia, i soldati al megafono ripetono ossessivamente in varie lingue le nuove disposizioni (il velo imposto alle donne, il divieto di fare musica e giocare a pallone, una sorta di coprifuoco) ma soprattutto qualsiasi contatto con le autorità civili, militari e religiose (dall’imam in giù) deve passare per forza per estenuanti, umilianti e spesso infedeli traduzioni “simultanee”.

Va da sè che il tema centrale del film è lo sconvolgimento portato nella placida vita di un borgo semidesertico, già di fede musulmana, da un terrore islamista duro e misterioso, che si accanisce su tutti e in particolare sulla placida famiglia di Kidane e Satima e sui loro deliziosi ragazzini (Issan, che conduce al pascolo una decina di scheletriche mucche e Toya, che a casa con la madre sogna il suo futuro di donna).

Di mezzo c’è anche l’omicidio accidentale di un pescatore e le diverse reazioni che scatena, nel piccolo tessuto di relazioni parentali e di amicizia, un potere assoluto senza alcuna compassione, comprensione umana. Al quale si può sfuggire solo nel chiuso della propria casa, sempre che occhiute (e orecchiute) sentinelle non avvertano un suono, un gesto, una presenza vietata da perseguire.

Sissako racconta tutto con grande sapienza espressiva e fantasiosa gestione delle inquadrature: due sequenze bellissime da segnalare, la partita di calcio senza pallone, che forse a qualcuno ricorderà quella di tennis senza pallina del finale di Blow up di Antonioni e il balletto dello jjhadista tormentato, colto in un momento di libertà inconfessabile. E la sua mano è leggera, da cronaca quotidiana: i drammi terribili che attraversano il film, e che si vedono tutti, sono immersi in un’Africa solare e in fondo calma, ma in cui è palpabile la sofferenza di un mondo che non capisce, prima ancora che non approvare, la spietatezza insita in regole senza spiegazione, arcaiche, inappellabili.

E ancor meno gli uomini che le amministrano, dichiarando per esempio assolutamente legale (Corano alla mano, verrebbe da scrivere) un rapimento a fini di successivo matrimonio coatto, purché il colpevole del fatto sia un uomo pio, osservante di Allah.

Timbuctù di Abderrahmane Sissako con Ibrahim Ahmed, Abel Jafri, Toulou Kiki, Layla Walet Mohamed, Mehdi A.G. Mohamed

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