Esce la discussa Palma d’Oro dell’ultimo Festival di Cannes, “Titane” della francese Julia Ducournau, interpretato da Agathe Rousselle. E’ lei Alexia, che una placca di Titanio impiantata nel cranio ha trasformato in una creatura estrema, tra l’umano e il metallico: fa l’amore con una seducente Cadillac, e ne resta “incinta”, ma finisce per trovare requie solo tra le braccia di un padre inventato. Un film che ricorda Carpenter e Cronenberg, Tsukamoto e Alien, ricco di una sua forza inquietante e originale
È racchiusa nel prologo la chiave di lettura di Titane, il secondo film di Julia Ducournau, 37enne regista e sceneggiatrice francese , che ha vinto la Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes. In quell’incidente che sembra dovuto al caso: una bambina capricciosa e un padre distratto, l’auto che finisce fuori strada, una placca di titanio impiantata nel cranio della protagonista salva per miracolo. In realtà si rivelerà ben presto figlio del destino. Un destino che inesorabile condurrà Alexia (Agathe Rousselle) tra le braccia del più improbabile degli amanti: una Cadillac, bellissima, immensa, cromata e seducente. Non oggetto d’amore un po’ weird, ma vero e proprio soggetto erotico, talmente potente da essere capace di tutto, anche di ingravidare la protagonista, piantando nel suo ventre il seme di una creatura di genere nuovo, metà uomo e metà macchina, in bilico sul baratro del non senso eppure capace di suscitare un’inusitata tenerezza.
E in bilico, per la verità, si colloca l’intero film, capace di partire da un assunto piuttosto assurdo e di portarlo fino in fondo, fino alle estreme conseguenze. Senza pietà e – diranno i detrattori – con grande sprezzo del pericolo. E del ridicolo! Può darsi. Di certo questo non è un film per tutti. La prima idea pare si sia manifestata all’autrice in sogno. Anche se la parola più esatta forse è incubo. Perché Alexia ama una Cadillac, ma in compenso detesta tutto il resto dell’universo, uomini e donne, e davanti ai nostri occhi increduli si dedica fin da subito a una vera e propria mattanza, come se la morte dell’altro fosse l’unico modo per rivendicare la propria alterità rispetto alle regole del mondo. Come una sorta di Terminator in carne, ossa, e titanio, sembra programmata per eliminare tutto ciò che entra nel suo campo visivo. E per sopravvivere, a qualunque costo. Anche cambiando identità, fingendosi di un altro sesso, reinventando il proprio alfabeto sentimentale.
L’incontro tra Alexia e il comandante dei pompieri (Vincent Lindon), devastato dalla perdita di un figlio scomparso bambino e mai ritrovato, è un intreccio di dolore e rabbia, corpi martoriati e sguardi sofferenti. Uno scontro titanico tra anime urlanti e corpi piangenti, bisogno di redenzione e vertigine del vuoto. Incurante di ogni realismo, agnostica davanti a qualunque precetto etico, questa fiaba horror sgradevole, cattiva, a tratti feroce, pervicacemente si rifiuta di assumere la necessità di un punto di vista morale sulla storia. La regista sembra dire semplicemente allo spettatore: prendere o lasciare.
È un’idea di cinema estremo, che è legittimo trovare insopportabile, ma non liquidare con una semplice e annoiata alzata di spalle. Perché c’è dentro tanto cinema, bello e brutto, amato e detestato, d’autore e di genere, di serie A e di serie Z. Vengono in mente, in ordine sparso, lo Tsukamoto di Tetsuo e lo Żuławski di Possession, il Carpenter di Christine – La macchina infernale, Alien e i manga giapponesi, ma anche Roger Corman, Russ Meyer e Leos Carax. E ovviamente Cronenberg, ma non solo e non tanto Crash, riferimento immediato e persino banale alla perversione che può abitare il rapporto fra uomini e automobili, piuttosto i primi film del regista canadese, quelli che hanno fondato il cosiddetto “body horror”, esplorando i confini fra umano e non umano, attraverso le morbose contaminazioni tra esseri umani e parassiti, in nome di un’idea di cinema mutante e inquieto, infetto e destabilizzante.
Il risultato è un film spiazzante, folle, melodrammatico, emozionante. E poi c’è Vincent Lindon, toccante esempio di quello che un vero attore è in grado di fare quando abbraccia senza riserve la visione di un regista. Una regista in questo caso, di cui personalmente non vedo l’ora di vedere il prossimo film.
Titane di Julia Ducournau, con Agathe Rousselle, Vincent Lindon, Dominique Frot, Myriem Akheddiou, Théo Hellermann.