Il nuovo direttore musicale di Largo Mahler racconta con che spirito affronta l’impegno. Dai rapporti con l’orchestra all’approccio con il repertorio, classico e contemporaneo
Si respira aria nuova in Largo Mahler, da quando il ventottenne Emmanuel Tjeknavorian è stato nominato direttore musicale dell’ex-Verdi, oggi Orchestra Sinfonica di Milano. Viennese, figlio d’arte (il padre è il direttore e compositore armeno Loris Tjeknavorian), grande carriera internazionale da violinista dopo la vittoria del Sibelius nel 2015, da un paio d’anni è lanciato soprattutto nella direzione, «anche se non passa una sola settimana senza che imbracci di nuovo il violino, altrimenti mi manca fisicamente». A giugno suonerà in piazza Duomo con la Filarmonica della Scala, diretto da Riccardo Chailly, suo grande sostenitore, presente qualche sera fa al primo concerto dopo l’annuncio dell’incarico che Tjeknavorian assumerà a partire dalla prossima stagione, in cui sarà sul podio per ben dieci serate.
Due anime musicali quindi?
Chiamiamola anima, cuore, cervello, ma in realtà è sempre la stessa. Tutto è regolato dalla musica. Mi viene un paragone con la mitologia greca: la musica è come la divinità originaria, che ha generato tutte le altre: la composizione, la direzione, i vari strumenti e così via. Forse si può dire che il violino e la direzione sono due figli diversi della stessa famiglia.
In effetti sono anche due lavori molto diversi.
Non c’è dubbio. Anche se non si contano i solisti in grado di dirigere benissimo. Ma poi arriva il momento in cui devi prendere una decisione. Una cosa è se vuoi farlo solo per piacere personale, un’altra è se vuoi dire davvero la tua. Come violinista ho suonato tutto quello che ho sempre sognato di suonare, con grandi orchestre e grandi direttori. Eppure il passaggio alla direzione è stato estremamente naturale. A essere onesti però non mi manca la vita del violinista solista.
Cosa non amava di quella vita?
Nulla in realtà, è solo una questione di personalità. Volevo una condivisione non solo con il pubblico, ma anche con i miei colleghi musicisti. Quando suoni un concerto per violino non manca la comunicazione con l’orchestra, che avviene un po’ con gli occhi, un po’ con i movimenti, ma in realtà stai suonando per il pubblico: non raggiungerai mai l’intensità dello sguardo del direttore d’orchestra sul podio. Io ho sempre voluto plasmare la musica. In questi giorni sto dirigendo Romeo e Giulietta di Prokof’ev a Graz, conosco molto bene quel pezzo: anche mio padre lo ha inciso due volte. Eppure quando apro la partitura trovo ancora delle nuove cose che voglio sentire. Sono dettagli che sento senza ascoltare, li suono dentro di me: è quasi una malattia! Ma è in questo modo che riesco a condividere la mia passione, il mio amore per la musica. Ed è una cosa che puoi fare solo quando dirigi.
Torniamo alla sua formazione. Il suo rapporto con la musica si deve ovviamente alla sua famiglia, ma questo non implica automaticamente che si voglia diventare musicisti a tutti i costi.
Niente affatto. Ad esempio mia sorella, di quindici mesi più grande di me, in casa sentiva la stessa musica che sentivo io, assisteva agli stessi concerti che vedevo io, siamo cresciuti in pratica come gemelli… eppure non ha voluto fare la musicista. Io al contrario non ho dovuto chiedermi nemmeno per un secondo cosa avrei voluto fare da grande. Fin da bambino ovunque mi trovassi afferravo qualcosa in mano per imitare mio padre: persino quando eravamo al ristorante usavo le posate. Quando ancora non parlavo avevo un mio bastoncino che volevo sempre e lo muovevo farfugliando “ti ta ta” come se battessi il tempo. Esiste persino un video che testimonia in qualche modo il mio debutto da direttore: avevo due anni e mio padre mi aveva portato sul podio con lui, indossavo un piccolo frac fatto apposta per me. Era per scherzare ovviamente, ma mostra che il mio amore per la musica c’era fin da allora, ed è lo stesso che è rimasto ancora oggi: un amore totalizzante, a volte persino doloroso.
Parliamo dei suoi debutti: da solista e da direttore.
La prima volta che ho suonato il violino in pubblico avrò avuto sei anni e l’anno dopo già mi capitava di suonare in orchestra. Come direttore avrò avuto diciotto anni: diressi la prova di un’orchestra amatoriale in un ospedale di Vienna, facevamo la Seconda di Beethoven. Poi ho diretto spesso orchestre nelle masterclass, oltre che orchestre giovanili. A volte ho la sensazione che i giornalisti pensino che un giorno di qualche anno fa mi sono svegliato e ho pensato di improvvisarmi direttore. Invece posso ripetere quello che ho detto in conferenza stampa: un’orchestra lo capisce dopo il primo levare se c’è sul podio qualcuno che non sa cosa fare. È un duro lavoro, che richiede tempo ed esperienza, nemmeno il talento è sufficiente.
Ci descriva il suo approccio con le orchestre.
Ogni volta studio le partiture come un matto, finché non mi rimane in mente ogni singolo diminuendo, ogni impercettibile sforzato che voglio fare. Prima di cominciare le prove devo potermi suonare tutta la partitura in testa: provare per me significa cercare di avvicinarmi il più possibile a ciò che ho già chiaro dentro di me. È un processo anche frustrante, perché il tempo che abbiamo oggi è limitato. Le prove non sono più come in passato: nessuno ha il numero di prove che potevano avere Celibidache o Furtwängler. A volte nelle pause continuo a chiedermi se ce la farò, quanto riuscirò ad avvicinarmi al suono che ho immaginato, e non è affatto una sensazione piacevole, che accomuna tutti i direttori che come me si preoccupano dei dettagli. Esiste anche un altro approccio, un’altra filosofia: ci sono direttori, anche bravissimi, che seguono l’onda dell’orchestra e cercano di non disturbare, valorizzando in questo modo la loro tradizione, la spontaneità dei musicisti. Io non sono così. Non voglio certo disturbare, ma salgo sul podio per creare un’interpretazione personale.
Veniamo alla Sinfonica di Milano, dove ha debuttato nel 2022 con un programma francese. Qual è stata la sua prima impressione?
Indimenticabile. Ero rimasto sorpreso dal risultato, anche perché l’orchestra non ha una grande tradizione con il repertorio francese, quindi ovviamente La Mer di Debussy era ben lungi dall’essere come volevo io alla prima prova. Eppure, ogni volta che finivamo ero sempre molto positivo. C’era qualcosa nella chimica che si era creata per cui continuavo a pensare: “Forse non suonano ancora come vorrei, ma va bene lo stesso. Non sono preoccupato”. Ed è la stessa identica sensazione che ho avuto pochi giorni fa per il programma con Wagner e Strauss. Non so cosa ci sia nell’aria ogni volta che inizio le prove con loro, ma lavorerò davvero sodo per far sì che questa positività rimanga.
Com’è lavorare con le orchestre italiane?
Sono orchestre in cui la cosa che conta di più è la bellezza del suono e dell’espressione. Dico spesso che le orchestre si possono paragonare alle società. E in Italia, soprattutto a Milano, c’è questa esigenza di presentarsi bene, banalmente anche di vestirsi bene, di essere sempre eleganti. Può sembrare superficiale ma è il segno di un’attenzione particolare per la bellezza. Questo lo sento anche con la Sinfonica di Milano, con cui mi godo ogni frase che dirigo.
Qualche aspetto su cui intende lavorare?
Forse sulla disciplina musicale. Se c’è un subito piano, allora deve essere subito piano. Io sono di origini armene, e in qualche modo armeni e italiani hanno un temperamento molto simile, alla “dolce vita”. Allo stesso tempo però ho frequentato una Musikschule viennese, quindi porto con me una combinazione di passione e rigore che vorrei trasmettere all’orchestra.
Cosa pensa del concerto sinfonico tradizionale? È necessario svecchiarlo o funziona ancora?
In realtà amo molto le tradizioni. Ovviamente sono sempre aperto a nuove idee: ci sono molte persone creative e intelligenti che considerano anche format diversi, ma in generale penso che funzioni ancora benissimo. Forse l’unica cosa di cui mi rendo conto è che oggi i concerti non devono durare troppo. Cento o duecento anni fa i concerti erano molto più lunghi, duravano magari un’intera giornata: la gente andava a un concerto e aveva l’opportunità di ascoltare molte ore di musica. Ma era diverso il modo di frequentarli, più simile a quando oggi i ragazzi vanno in discoteca o a una festa, che arrivano alle dieci e possono restare fino alle cinque del mattino o magari decidere di andarsene prima.
Quindi è scettico rispetto ai cambiamenti.
Anche quelli che dicono che se indossassimo tutti delle t-shirt attireremmo un pubblico più giovane: il frac va benissimo. Ecco forse l’unica cosa che cambierei è il modo in cui suoniamo. Spesso i musicisti suonano con la “poker face”, evitando di muovere persino un sopracciglio per non tradire le emozioni. È sbagliato: dovremmo poter esprimere anche con il corpo la nostra passione. Non è che Federer o Djokovic quando vincono Wimbledon si limitano a ringraziare e se ne vanno. Anche noi dobbiamo mostrare le nostre emozioni.
Parlando di repertorio, mi interessa il suo rapporto con la musica contemporanea.
Sono onesto: non ho ancora molta esperienza con il repertorio di oggi, ma mi piace e mi interessa. Solo non amo i compositori interessati solo agli aspetti teorici, che magari ti consegnano la partitura senza preoccuparsi del fatto che la loro musica dovrà essere eseguita. È importante secondo me la cultura del feedback: anche noi interpreti dobbiamo dire la nostra prima che un pezzo venga presentato. Se apro una partitura nuova e vedo che l’organico prevede otto trombe, dodici tromboni, due violini e sessanta viole c’è qualcosa che non va, o ancora se il flauto suona in 3/4, i violini in 2/7 e il contrabbasso in 9/16… c’è bisogno di uno scambio. Del resto, anche Brahms chiedeva sempre un parere a Joachim o a Clara Schumann prima di pubblicare le sue partiture. Ma con questa nuova posizione spero tanto di poter incontrare tanti giovani compositori italiani, e poter portare avanti degli scambi con loro.
Un’ultima domanda: l’opera?
Mi interessa molto. Ma sa, per l’opera ci vuole molto tempo: per studiarla e per seguire la produzione. Quando facevo il violinista a tempo pieno ovviamente era impossibile, e oggi che dirigo una media di un concerto a settimana non va molto meglio. Ma nelle prossime stagioni troverò il tempo, anche perché penso che un direttore d’orchestra completo debba per forza dirigere anche l’opera, lavorare con i cantanti, fare in modo che il proprio gesto respiri insieme a loro. Recentemente ho diretto Die Fledermaus di Johann Strauss, che è considerata una delle cose più difficili da dirigere, per i continui cambi di tempo. Ma mi è venuto molto naturale dirigerla perché è in wienerisch, che è la mia lingua madre. Bisogna conoscere bene la lingua in cui un’opera è cantata per poterla dirigere. Per esempio io adoro Janáček e Dvořák, ma sarebbe un errore se li dirigessi senza conoscere bene il ceco. Vale anche per l’opera italiana, che però voglio assolutamente affrontare prima o poi: sto studiando l’italiano, anche per comunicare meglio con l’orchestra. Però parlo fluentemente il tedesco e il russo, quindi una buona parte del repertorio posso già dirigerla.
E il repertorio armeno?
Ci sono alcune opere: Anoush o Arshak II, che mio padre ha diretto all’Opera di San Francisco. Ma non è una priorità. Onestamente, con tutto il mio amore per l’Armenia, vorrei dirigere prima Traviata.
Foto di Angelica Concari