Il presente dei nativi americani, la loro storia, lo sradicamento: Tommy Orange cambia il verso del cannocchiale attraverso cui guardare all’indian-urban. In un romanzo straordinario, per la prima volta, la voce, di chi è stato, è e sarà ancora un nativo. Ma non più uguale.
Tommy Orange ha trentasette anni, è nato e cresciuto ad Oakland, si è laureato presso l’Institute of American Indian Arts ed è membro delle tribù Arapaho e Cheyenne dell’Oklahoma.
Suo è un esordio letterario straordinario: Non qui, non altrove, pubblicato nel 2018 negli USA e portato in Italia da Frassinelli nel 2019, è subito stato inserito nella long list del National Book Award e il New York Times Book Review l’ha segnalato come uno dei dieci libri migliori dell’anno.
Il titolo originale, There There, è una citazione di Gertrude Stein.
Quando, in un’intervista, le chiesero che cosa provasse per Oakland, sua città natale, la Stein rispose, criptica come di consueto, che “there is no there there”: “Non c’è lì lì”. L’Oakland della sua infanzia non esisteva più, era stata sostituta da un “lì” che non corrispondeva con il “lì” dei suoi ricordi, abbattuto, cementificato e ricostruito in forme per lei ormai irriconoscibili.
Orange ha utilizzato la citazione come metafora per la condizione dei nativi americani negli Stati Uniti oggi.
Questo è lo stesso meccanismo, dice l’autore, che si instaura quando si vogliono pensare i nativi d’America come legati alla sacralità della terra. Quella dimensione non esiste più, anzi: i coloni hanno strappato i nativi da quel “lì”, decimandoli, massacrandoli e assoggettandoli. Hanno quindi cercato di segregarli nelle riserve e, in ultimo, hanno pensato di forzarne l’integrazione per cancellarne le tracce. Tutto ciò si è inciso nell’esperienza nativa contemporanea, e volerla pensare ancora legata a quel mondo, significa da una parte darla per morta, e dall’altra svuotare di significato tutto ciò che vivono, creano e sperimentano i nativi d’America delle ultime generazioni.
“Se ti identifichi con quella cosa lì”, dice Orange, intendendo la cultura indiana del passato, “sei già scomparso, sei finito ancora prima di iniziare. Sei nel passato. C’è qualcosa di potente nell’attestarsi sulla carta o su video e per i nativi americani non c’è davvero una cultura del genere a cui poter fare riferimento”.
Non qui, non altrove è quindi sia il capostipite di quella che l’autore spera possa divenire una letteratura nativo-americana contemporanea, sia un’occasione per decostruire il nostro pregiudizio e annientare la nostra ignoranza sul tema.
Apre il libro un breve saggio sull’esperienza nativa. Con tono tagliente, iracondo e lapidario, l’autore ripercorre la storia dei nativi su suolo statunitense, dall’inizio della colonizzazione ad oggi.
La prima tappa del viaggio storico è la “cena del ringraziamento” del 1621, che Orange specifica non essere mai stata davvero una cena di ringraziamento, quanto piuttosto un banchetto per sancire l’accordo di cessione di terreno da parte della tribù dei Wampanoags a favore dei coloni bianchi.
Due anni dopo ci fu un’altra cena, organizzata per sancire amicizia eterna tra nativi e coloni, dopo la quale duecento nativi americani morirono intossicati da un veleno “misterioso”.
Nel 1637 tra i quattro e i settecento nativi americani appartenenti alla tribù dei Pequot si riunirono per l’annuale ballo del Green Corn. I coloni circondarono il loro villaggio, gli diedero fuoco e spararono a vista su qualunque Pequot tentasse di scappare. Il giorno dopo la Colonia del Massachusetts organizzò un banchetto in celebrazione dell’accaduto e il governatore lo dichiarò un giorno del ringraziamento.
Questo genere di “ringraziamenti” veniva messo in atto ogni qualvolta i coloni portavano a termine un “massacro di successo”.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo statunitense mise in atto un programma di riallocazione dei nativi americani dalle riserve alle città, il cosiddetto Indian Relocation Act del 1956. L’idea era quella di disgregare le tribù e di cancellarne le tracce, forzando una forma di assimilazione, di integrazione totale nella cultura bianca dominante: il completamento ideale di una campagna genocida durata cinquecento anni. Eppure, i nativi resistettero all’assorbimento. Crearono comunità indiane nelle città e vi portarono le loro famiglie, le loro tradizioni e la loro lingua. Dopo tre o quattro generazioni, divennero ciò che oggi viene chiamato “urban indian”, indiani urbani, non più attaccati alla terra – se non nel ricordo dei loro avi – quanto allo stesso tessuto metropolitano.
Con il breve riassunto di solo alcuni degli avvenimenti più atroci nella storia del genocidio dei nativi americani, Orange ci porta alla tesi centrale del prologo: la diffusione del potere coloniale si è estesa fino a spogliare i nativi del diritto di autodefinirsi.
L’esperienza nativo americana è stata sempre raccontata da qualcun altro, delineata da chiunque meno che dai protagonisti stessi. Ciò che questa identificazione ci ha dato sono immagini di indiani tristi e sconfitti, mezzi matti e alcolizzati. Questa figura storica, figlia della rimozione degli indiani veri e propri in favore di una sostituzione con un’icona coronata di piume, è esattamente ciò che l’autore vuole smantellare.
Il romanzo si articola intorno a dodici protagonisti che raccontano le loro storie. L’autore ha scelto di utilizzare i diversi punti di vista per dar voce ad un’identità frammentata: riappropriarsi della poliedricità dell’esperienza indiana, creando un collage disordinato di ciò che è la realtà nativa negli Stati Uniti al giorno d’oggi. Quando gli viene chiesto se si sia basato su persone reali nel disegno di questi personaggi, lo scrittore risponde che c’è molto più di sé stesso in ognuna di queste persone di quanto non si voglia credere. È la sua esperienza nativa fratturata e rimescolata nelle vite di persone molto diverse tra loro: donne, uomini, anziani, giovani, nativi, bianchi e meticci.
C’è quindi un po’ di Orange nel giovane regista Dene, che vince una borsa di studio per creare una docu-intervista sull’esperienza nativa in memoria dello zio regista morto; in Edwin, laureato in letteratura nativo-americana e afflitto da una depressione che consuma davanti al computer in casa di sua madre; in Jacquie ed Opal, le sorelle che da bambine parteciparono all’occupazione di Alcatraz (1969-71), quando un gruppo di nativi tentò di rivendicare il territorio dell’isola-prigione in disuso, originariamente territorio tribale; in Orvil, quattordicenne che cerca di riscoprire il suo passato nativo guardando video di balli tradizionali su YouTube. Sarà solo con l’avanzare dei capitoli che le vite dei personaggi, all’apparenza indipendenti l’una dall’altra, arriveranno ad incontrarsi, grazie ad un sofisticato intreccio di trama, all’evento centrale del libro: il raduno tradizionale (powwow in lingua originale) di Oakland.
La bellezza del libro risiede nella tensione che Orange è in grado di creare. Con il suo linguaggio diretto, i riferimenti culturali contemporanei e i giochi sintattici, l’autore crea un esperimento letterario unico nel suo genere e nuovo rispetto a tutto ciò che lo precede. I personaggi sono tutti in cerca di qualcosa, esorcizzano il dolore con espedienti diversi (alcool, cibo, violenza), hanno una propria singolare complessità che si traduce nelle più varie forme dell’ossessione.
La struttura quasi teatrale della sinfonia dei personaggi, insieme alle brevità dei capitoli e all’intensità delle storie narrate, dà vita ad un libro che non si può fare a meno di divorare.
Il romanzo non perde mai la rabbia che contraddistingue il prologo iniziale, né tantomeno i temi trattati – abuso, tossicodipendenza, depressione, violenza, spaccio, psicosi – alleggeriscono il tono. Ma la voce di fondo, ciò che resta di Orange al nocciolo della narrazione, ha l’intonazione della fiducia: il finale aperto non lascia senza respiro, ma con il cuore leggero. Pare che l’autore voglia guidarci attraverso una sorta di processo di catarsi: l’espiazione dell’esperienza nativa per come centinaia d’anni di oppressione l’hanno resa, per giungere ad una definizione nuova, più ampia, fedele alla realtà e soprattutto data dai nativi stessi.