Tre nomination e un oscar vinto (da Allison Janey, nel ruolo della madre della protagonista) per il film di Craig Gillespie, che racconta l’ossessione della vittoria e la predestinazione alla sconfitta di una classica eroina negativa americana. Atleta dai talenti unici, Tonya Harding sfiorò il podio alle Olimpiadi ma finì col perdersi per i suoi molti errori e le frequentazioni balorde, marito compreso
Tonya Harding, protagonista del film di Craig Gillespie, è stata una grande pattinatrice sul ghiaccio, la prima americana a eseguire un triplo axel, finezza da medaglia olimpica, a tutt’oggi una delle poche che ha avuto il coraggio anche solo di provarci. Insomma, una forza della natura, un’atleta dotata di un talento fuori misura. Però la sua carriera, costellata di errori e passi falsi, non è stata minimamente all’altezza di tale talento, fino alla clamorosa caduta (in tutti i sensi) nel 1994. Quando Tonya si stava allenando per partecipare alle olimpiadi invernali di Lillehammer, in Norvegia, e insieme all’ex marito Jeff (nel film Sebastian Stan), in combutta con un gruppetto di squallidi personaggi, si è fatta venire la bella idea di azzoppare con una sbarra di ferro la rivale Nancy Kerrigan. Naturalmente, davanti ai giudici è stato poi un gran giocare a scaricabarile fra un balordo e l’altro, e alla fine, visto che non c’era scappato il morto, tutti se la sono cavata con condanne minime.
Tutti tranne Tonya, che riuscì a evitare il carcere ma – a soli 23 anni – si ritrovò con la vita completamente azzerata. Condannata a essere esclusa da qualunque competizione con i pattini, lei che con quei pattini ai piedi praticamente c’era nata, e a quattro anni già volteggiava sul ghiaccio come una piccola diva dall’irresistibile energia. Una caduta vertiginosa da cui non si sarebbe mai più ripresa, perché non è vero, o almeno non sempre, che solo chi cade può risorgere. Ci sono vite dove la resurrezione non è proprio una possibilità contemplata. Punto.
E la vita di Harding, perfetta figlia del proletariato “white trash” dell’Oregon, segnata fin dall’infanzia da una storia di miseria e violenza, era di quelle predestinate al fallimento. Il talento non basta, purtroppo, se nasci e cresci in un paesaggio fatto solo di macerie, materiali e affettive, se vedi tuo padre sparire nel nulla, se rimani in ostaggio di una madre feroce (Allison Janney, che per questo ruolo ha vinto l’Oscar), ostinatamente incapace di affetto e assurdamente inconsapevole anche delle più elementari basi dell’umana empatia. Non c’è niente da fare: potrai anche essere un’atleta straordinaria, ma di tutto il tuo talento non saprai che cosa fare, perché il tuo handicap emotivo si rivelerà insuperabile.
È un vero e proprio passaggio all’inferno senza ritorno quello che viene raccontato nel film di Craig Gillespie (già autore di Lars e la ragazza tutta sua), emozionante fin dalla prima inquadratura in cui la protagonista, ingolfata e triste, seduta al tavolo della cucina, murata viva dentro una vita infelice e senza speranza, è “chiusa” dentro il formato quadrotto di una finta intervista televisiva. Il film inizia così, con Tonya Harding (cioè Margot Robbie, magnifica, anche lei “nominata” alla statuetta d’oro) che racconta la sua versione dei fatti. Ed è soltanto la prima di tante. Perché tutti i protagonisti racconteranno una versione diversa, spesso guardando direttamente in macchina e quindi coinvolgendo lo spettatore in questa storia nera e molto americana, indecifrabile e al tempo stesso fin troppo facile da interpretare.
Sì, perché quella di Tonya è in qualche modo una storia di predestinazione, ma senza redenzione. Quella di una ragazzina nata in una famiglia altamente disfunzionale della profonda provincia americana, senza istruzione, denaro e nemmeno la capacità di immaginare la differenza che potrebbe fare un pizzico di cultura (se solo arrivasse almeno alla fine del liceo), la quale si ritrova del tutto priva di mezzi, ma con un’unica straordinaria freccia al proprio arco, la capacità di volare sui pattini e sul ghiaccio. E nessuna capacità di comprendere che cosa fare di tanta strabiliante abilità: infatti, non riesce a farne nulla, fra una deriva autolesionista ad alto tasso alcolico e un matrimonio sbagliato (con un altro proletario ottuso e manesco), fra un brevissimo istante di gloria e un infinito sprofondare senza reti di sicurezza.
Gillespie racconta la storia vera della Harding come fosse la sceneggiatura di un film dei fratelli Coen, imprimendo al montaggio un ritmo trascinante, non risparmiando note sarcastiche sull’idiozia umana e permeando ogni scena di feroce umorismo nero. Però, davanti al mistero doloroso di una giovane vita perduta, decide di non calcare mai la mano, e riserva alla protagonista uno sguardo affettuoso, accogliente nonostante tutto. Capita spesso di ridere durante la visione del film, ma non è mai di Tonya che si ride, di questa ragazzina sguaiata e priva di eleganza, fragile e indomita, tanto determinata quanto ottusa, incapace di comprendere le regole del gioco ancor prima che di accettarle, sempre un po’ fuori parte, sopra le righe, rabbiosamente esclusa, tristemente incompresa. Perfetta protagonista di questa parabola amara sull’ossessione, tutta americana, per la vittoria a qualunque costo, fino a trasformare il sogno in un incubo grottesco.
Tonya, di Craig Gillespie, con Margot Robbie, Allison Janney, Sebastian Stan, Paul Walter Hauser, Juliane Nicholson