Torres: l’Indie Rock incontra la poesia

In Musica

Mackenzie Scott, in arte Torres, porta al Circolo Magnolia la versatilità del suo timbro, malinconico e sussurrato ma anche potente e graffiante

Oh Mother Earth, oh Father God,
The demons wager on my fall

O Madre Terra, o Dio Padre,
i demoni scommettono sulla mia caduta.

Questi versi, che scorrono pigramente in una melodia incastrata nel rimbombo della fortissima gran cassa, hanno aperto il concerto di Mackenzie Scott, in arte Torres, nell’intima atmosfera del Circolo Magnolia lo scorso lunedì 14 settembre.

I testi della ventiquattrenne originaria di Macon (Georgia) hanno un certo valore aggiunto: la loro struttura ricorda le strofe di una poesia, con la tendenza a dare corpo e crudezza a immagini impalpabili. Le metafore fanno poi convergere l’esperienza personale in un ampio ventaglio di interpretazioni, secondo uno stile elegantemente studiato dalla stessa cantautrice: «Scrivere in metafora è il mio trucco, odio chiamarlo tale, ma questo è in fondo quello che faccio». 

Il risultato non delude. Le luci blu del palco donano al clima quei giusti toni cupi che preparano i suoni inziali di synth. Entrano i musicisti e la protagonista, tutti interamente vestiti di nero. Emerge a fatica la voce di Torres in questo primo pezzo Oh Mother Earth oh Father God: la dolcezza del timbro contrasta con lo spessore dei bassi e con la violenza della batteria elettronica, a rinforzo di una già ridondante sezione ritmica. A poco a poco crescono le dinamiche degli accordi delle due chitarre elettriche sul palco (una delle quali imbracciata dalla stessa cantante), arrivando a generare un sound finalmente completo.

Appare subito interessante la varietà di timbro che riesce a toccare la voce: seguendo il flusso dei pezzi, Torres riesce a rendere espressivi sia gli accenti malinconici (e quasi sussurrati) sia le situazioni in cui mostra un“graffiato” potente, con una tinta aggressiva che appare quasi scollegata dal suo atteggiamento compassato .

Il pezzo successivo, New skin presenta alcuni tratti più sofisticati rispetto al pezzo di apertura: la cassa apre il brano battendo i quarti ma il cambio di ritmo a metà dell’opera genera una situazione intrigante, in cui le stesse espressioni di Torres si fanno eloquenti. È una traccia evidentemente molto sentita, il cui testo criptico parla di cambiamento: vestire una “nuova pelle” è un sacrificio che passa anche attraverso la violenza e l’oscurità, con la consapevolezza che la paura è più forte in chi non si è mai addentrato in questo territorio sconosciuto e buio (“But if you’ve never known the darkness, then you’re the one who fears the most”). L’armonia segue il testo proprio sui versi che richiamano questa scoperta drammatica: si fa tetra e incalzante allo stesso tempo, con quella caratteristica energia vitale che si schiude in modo timido nella drammaticità dei testi della Torres.

La stessa cantautrice parla di questo dualismo in modo confuso: «la più generica descrizione collocherebbe la mia musica da qualche parte tra il rock elettronico e l’indie folk, ma non penso che debba essere necessariamente inserita in questi termini. Userei probabilmente una serie di parole senza senso, magari “calda” e “deprimente”».

I suoni spettrali tornano in Cowboy guilt ma in questo brano i volumi della batteria sfiorano l’eccesso, condizionando la resa degli altri strumenti. Al termine del brano gli acuti del synth restano nell’aria, creano un clima magico, una sorta di inquietante carillon. L’energia torna dirompente con Sprinter, traccia chiave dell’omonimo ultimo album, e questo sprigionamento viene sottolineato da una calda luce rossa alle spalle dei musicisti. Colpisce l’andamento lento del brano, in pieno contrasto con il suo stesso titolo (Sprinter = velocista): i volumi, ora bilanciati, permettono all’autrice di far emergere il suo stile, più definito e maturo rispetto al suo album precedente, e perfettamente in linea con quel tocco di suggestiva disperazione delle songwriters come PJ Harvey o Cat Power.

Gli intermezzi tra un brano e l’altro vengono ben gestiti dai suoni metallici del synth. Entrano i battiti di gran cassa su A proper polish welcome, alternati dal levare sul charleston, in un effetto che nella sua semplicità ricorda il battito di un cuore. Il brano si lega all’arpeggio teso di Son you are no island. L’uso massiccio dell’E-bow sulle corde della chitarra elettrica impreziosisce l’armonia: l’effetto allunga incredibilmente le note e sostiene bene la melodia del canto.

Negli ultimi pezzi Torres catalizza l’attenzione con la sua spontanea teatralità: imbraccia la chitarra come se fosse un fucile e finge di mirare al termine del suo solo in Strange hellos e con la voce alterna ancora una volta i toni sensuali a un growl mascolino. La versatilità del suo timbro è incarnata nel suo stesso aspetto: la dolcezza dei tratti trova il suo contrappunto nel fascino androgino delle movenze, e la sua aria noncurante stride con la delicatezza dei modi con cui ringrazia il pubblico al termine dello spettacolo.

Il concerto si chiude con November baby, in cui i cori sono ricchi e ben costruiti e i fill della batteria sul ritornello rendono il pezzo glorioso. La generale cura nei dettagli mantiene viva l’attenzione del pubblico e alimenta la meritata attenzione che si sta creando attorno a questa giovanissima cantautrice.

Torres al Circolo Magnolia

(Visited 1 times, 1 visits today)