Rendere il più aderente possibile l’esperienza dell’ascolto di un disco alle sensazioni vissute durante un concerto dal vivo. E coinvolgere le persone in una sorta di rituale collettivo, in cui la musica funge da totem invisibile attorno al quale i corpi danzano e si liberano. Queste alcune delle linee essenziali della techno strumentale della band milanese confluite nell’album di cui parliamo in questa intervista
Un culto musicale urbano, che prende vita dalla strada e in strada si anima, lì tornando sempre, “perché suonare per strada è una scelta politica”. Così i Mefisto Brass, banda d’ottoni techno strumentale che ha pubblicato il suo primo album (dopo un EP d’esordio del 2020) lo scorso 8 marzo.
TOTEM è una reminiscenza, ma anche un desiderio, di liberazione ed emancipazione. Un disco dal suono ipnotico e profondo, che fa danzare e inoltrare nel pensiero. Erano più di cinquecento le persone presenti al Circolo Arci BIKO di Milano, per la serata di presentazione. Molte di loro hanno potuto ballare sulle note dei Mefisto Brass, molte altre invece dovranno attendere un loro ritorno, non avendo avuto la possibilità di scalare la lunga lista d’attesa. Nel frattempo, ci siamo fatti raccontare da Lorenzo Faraò (sax baritono della band composta anche da Giacomo Bertazzoni, sax tenore, Niccolò Pozzi, susafono, Fabio Danusso, rullante, Davide Turolla, grancassa) la genesi di questo lavoro.
Dopo cinque anni passati sulle scene di strada e di palchi milanesi, ma anche altrove in Italia e all’estero, arriva la pubblicazione di un album con sonorità che vogliono ricordare l’estetica dei vostri live. Da dove nasce questa esigenza e come ha preso forma TOTEM?
Prima della nascita dei Mefisto Brass, come musicisti, abbiamo prevalentemente affrontato la musica con un approccio analogico-strumentale. Il nostro retroterra culturale ed esperienziale ha radici nella musica d’improvvisazione e nelle bande informali di strada, realtà da cui abbiamo tratto linfa vitale e in cui ci siamo conosciuti.
Il nostro primo EP AmHardcore è frutto della spontaneità con la quale sono nati i nostri primi brani: improvvisazioni libere con l’idea di riprodurre il più possibile le sonorità della musica elettronica. Spontaneità che ci ha portato a non curare molto l’aspetto del prodotto discografico in sé. Diciamo che AmHardcore è un’istantanea nuda e cruda di quello che era il nostro sound in strada del 2019. Quattro anni dopo è nata invece l’esigenza di fare un lavoro completamente diverso con TOTEM. Considerato che la nostra forza rimane lo spettacolo live, abbiamo avvertito la necessità di rendere il più aderente possibile l’esperienza dell’ascolto di un nostro disco alle sensazioni vissute durante un concerto dal vivo. Lo abbiamo fatto grazie a un largo uso di effetti in fase di missaggio: delay, riverberi, chorus, octaver e filtri, col fine di ampliare la gamma cromatica dei nostri strumenti e avvicinarci il più possibile alle sonorità che avevamo in mente.
Perché questo titolo, così evocativo e simbolico?
Un totem è un’entità naturale o soprannaturale che ha un significato simbolico, è l’emblema di un passato mitico che possiamo sperimentare attivando la nostra connessione con esso. Un certo tipo di musica elettronica si basa sulla ripetizione ostinata di idee melodiche e ritmiche, utilizzando gli stessi espedienti delle musiche sciamaniche e apotropaiche dall’alba dei tempi fino a oggi. Ogni volta che suoniamo, il nostro intento è quello di coinvolgere le persone in una sorta di rituale collettivo, in cui la musica funge da totem invisibile attorno al quale i corpi danzano e si liberano.
Quali sono le ispirazioni che danno vita alla vostra cifra musicale? A che stili attingete e come li trasformate?
Ovviamente ascoltiamo tantissima musica. Chi è più dentro al jazz, chi alla musica mediorientale e balcanica, chi all’hip-hop, chi alla techno. Ci capita spesso di frequentare insieme serate di musica elettronica in club o centri sociali, perché oltre a fare musica ci piace ascoltare e ballare, e partecipare a eventi di questo tipo è un’infinita fonte di ispirazione e apprendimento.
Attingiamo a mani basse da moltissimi stili di musica elettronica: techno, tekno, drumm & bass, psy trance, EDM, IDM, jump style, tech house, break-beat. Per la natura stessa dei nostri strumenti, che hanno dei limiti fisici e non sono versatili quanto un sintetizzatore, abbiamo la necessità di rielaborare le sonorità dei generi di musica a cui facciamo riferimento, perciò spesso tentiamo di emulare acusticamente effetti come delay o phaser. Questo ci ha portato a inoltrarci in una ricerca espressiva e timbrica, esplorando territori per noi nuovi e a volte portando all’estremo le potenzialità dei nostri strumenti.
Nella vostra produzione parlate di “mantra sonori”: come nascono? E come nasce la vostra collaborazione nella scrittura e ideazione dei brani?
Tutto nasce dall’improvvisazione. Spesso partiamo da un riff di basso o da una piccola idea melodica che sviluppiamo in maniera estemporanea, suonando tutti insieme. Registriamo sempre tutto quello che accade, in modo da poter editare in un secondo momento il materiale e tenere le buone idee, scremando tutto il resto.
I nostri brani quindi sono spesso frutto di session di improvvisazione differenti, ed è per questo che parliamo di mantra sonori, perché estrapoliamo parti di musica che potrebbero vivere anche in maniera a sé stante, per integrarle poi tra loro e creare un discorso articolato.
Ci parlate del significato di musica techno strumentale e di quali sono i contesti in cui si sta sviluppando, in Italia e nel mondo?
Techno strumentale è un genere ancora non ben codificato ma che sta prendendo sempre più piede nel mondo. Ci si riferisce alla musica techno strumentale, o techno organica, per parlare di tutte quelle forme di interpretazione della musica elettronica eseguita da strumenti analogici, non solitamente impiegati per esplorare tali sonorità.
In italia siamo tra i pochissimi esponenti di questa corrente che invece è molto viva in altre parti d’Europa e del mondo. Una menzione speciale va alla Germania, paese che è sempre stato all’avanguardia nel genere e da cui proviene uno dei nostri gruppi di riferimento, una brass band di undici elementi che riproduce cover di brani di musica elettronica molto ricercati: i Meute.
Quanto le città e le realtà in cui siamo “costretti” influiscono sul desiderio di evasione e di esplorazione di un sé e di una collettività più profondi?
La città è un flusso continuo di stimoli che spesso sono poco intellegibili. È complicato riuscire a fermarsi e a fare i conti con se stessi e con chi ci sta intorno. Diremmo infatti che più che stimoli la città offre impulsi, ed è sempre più difficile uscire dalla logica binaria di zero/uno, acceso/spento. È sempre più complicato ricavare degli spazi per se stessi ma anche per vivere un tipo di socialità e di momenti d’incontro che non si basino esclusivamente sulle dinamiche del consumo. Per questo motivo crediamo sia importante riappropriarsi degli spazi urbani e farli vivere secondo modalità alternative e creative. La nostra possibilità di suonare in modalità acustica ci ha permesso in molte occasioni di suonare in spazi “non deputati” e di creare situazioni estemporanee dove coltivare un tipo di socialità altra. Abbiamo sempre sperimentato una partecipazione attiva e numerosa, e non parliamo solo di giovani, ma di persone in maniera trasversale e “anti-anagrafica”. Questo ci dimostra che non siamo gli unici a vivere questa esigenza.
La necessità di riti collettivi da cosa dipende? C’è una dimensione politica all’interno della quale vi muovete?
La necessità di celebrare riti collettivi deriva proprio dall’urgenza di riprenderci degli spazi, fisici ed emozionali, che siano di nuovo nostri, fuori dalla logica del consumo. Ci chiedi se c’è una dimensione politica nel nostro progetto, assolutamente sì! Abbiamo suonato tantissime volte per strada e per noi fare musica in strada è un atto profondamente politico.
Si può dire che i Mefisto Brass nascono dalla strada e che quella sia la vostra dimensione più naturale?
Si può! A volte ci definiamo “un sound system a energia polmonare”, il nostro non avere bisogno di una sorgente elettrica ci permette di essere liberi di offrire la nostra proposta musicale in maniera imprevedibile e anche luoghi non predisposti allo svolgimento di un concerto. L’estate scorsa ci siamo trovati sulla darsena del naviglio di Milano, a fine luglio, per suonare un po’ e salutarci prima di un breve viaggio. Nonostante lo avessimo comunicato solamente a qualche amico, alla fine del concerto c’erano circa quattrocento persone che non volevano più farci smettere di suonare.
Per la copertina di questo album avete scelto l’immagine della falena (come per il titolo del brano Massive moth). Cosa rappresenta per voi?
La falena è uno dei nostri animali guida. Nel suo ciclo vitale compie una metamorfosi, come tutti noi, volenti o no. È un essere notturno ma è attratto dalle luci e per noi è il “doppio” animale di tutte quelle persone che si muovono di notte e vengono attratte dalle luci dei dancefloor di tutto il mondo. Per di più siamo convinti che esistano due tipi di falene, quelle che girano ossessivamente intorno alle luci dei lampioni nelle sere d’estate e quelle che decidono di dirigersi verso la luna. Questo disco è dedicato alle seconde.
La band durante il concerto al Biko di Milano (Foto di Chiara Beretta )
Che connotazione avete voluto dare agli strumenti in questo album e che relazione hanno con la parte “produttiva”?
Avendo pochi strumenti dobbiamo capitalizzare le peculiarità timbriche di ognuno. Sax baritono e sousafono nel loro registro più grave esasperano la timbrica richiamando la pasta sonora tipica dei sintetizzatori. Il sax tenore nella quasi totalità dei casi assume il ruolo di voce tematica principale. La scelta di frammentare la batteria in due percussioni separate permette di intervenire in maniera estemporanea sulle sonorità degli strumenti, sia in termini di esecuzione che in termini di timbrica. La formazione, costituita da cinque strumenti indipendenti, consente di avere un approccio alla composizione simile a quello di un producer che utilizza campionatori e drum machine.
Gli strumenti rimangono il centro delle nostre produzioni. Nonostante sia stata aggiunta molta elettronica ed effettistica nella fase di missaggio dei brani, i nostri pezzi erano già plasmati prima di entrare in studio di registrazione e gli espedienti che utilizziamo in fase di composizione ci permettono di far mantenere un sapore elettronico ai nostri brani anche quando li suoniamo in acustico.
Due suggestioni in apertura e chiusura di album: i brani Fantasmi e Corvo Rosso. Che significato hanno per voi e quale il loro ruolo in TOTEM?
Fantasmi è una bufera di vento che fa volteggiare il Velo di Maya. Corvo Rosso chiude TOTEM. È l’unico pezzo in cui emerge una voce umana, seppur molto filtrata e per brevissimi sprazzi, ma non è un caso. La speranza è sempre quella di riemergere, quella di una catarsi psico-acustica che avviene tramite la musica e la danza.
Avete presentato questa pubblicazione il 9 marzo al BIKO di Milano. Quali progetti ora per il gruppo?
Siamo ancora un po’ storditi dal release party del BIKO che è andato ben oltre le nostre più rosee aspettative: un sold out da 350 partecipanti con 250 in persone in lista d’attesa che purtroppo non sono riuscite a entrare. Sicuramente replicheremo presto a Milano.
Ora saremo in giro per l’Italia e all’estero con un tour organizzato in collaborazione con Ludwig Sound, che ci porterà a toccare 9 nazioni tra oggi e settembre.
Nel frattempo stiamo già lavorando al materiale per il prossimo disco!