Come già in “Minasi” e “Una bugia buona”, anche in “Tiepide acque di primavera” del giovane regista cinese Gu Xiaogang una nonna tiene il centro narrativo e psicologico del film. Che segue le vite dei suoi quattro diversissimi figli, travolti dal boom urbanistico della regione di Fuyang (siamo nel 2008, l’anno delle Olimpiadi di Pechino). Ispirato visivamente a una celebre opera d’arte del XIV secolo, il film ne segue in qualche modo il flusso narrativo, con lunghi e splendidi piani sequenza collocati nel fiume Fuchun, simbolo di una natura minacciata dalla rapacità del mondo contemporaneo
C’è un personaggio, forse inevitabilmente femminile con la sua carica di vita donata e resilienza umana, al centro di alcuni tra i film recenti più interessanti che raccontano esperienze di vita, battaglie quotidiane, scambi con il mondo esterno dell’estremo oriente, incarnato da protagonisti prototipo ma al tempo stesso unici nel loro essere e raccontarsi. A questo personaggio è demandato il ruolo primario di resistere, alzando la bandiera del “restiamo umani”, all’odierna rapacità (proprio nel senso che Stroheim diede a quel termine-titolo del suo capolavoro, cioè cieco desiderio di danaro e status ad esso collegato), all’ineluttabile, irresistibile prevalenza del lato economico, moderno, vincente con la sua apparente intrinseca razionalità in tutte le declinazioni presenti del capitalismo, dagli Usa alla Cina, capace di gestire il potere e condizionare i governi del mondo intero.
Questo personaggio, conservatore in un’accezione anche positiva del termine, difensore non solo del passato e dei suoi valori ma anche delle competenze sociali in fatto di scambio con la natura come del rispetto e della generosità verso il prossimo, e prima di tutto con le persone più vicine, scegliendo di cercare di comprenderne le scelte e i sentimenti, è la nonna. Una nonna dalla difficile gestione irrompe in Minari di Lee Isac Chung, 43enne regista americano d’origini asiatiche, in cui la non ancora anziana e davvero bizzarra Sono-la fronteggia la complicata dialettica interna di una famiglia coreana trasferitasi in una fattoria dell’Arkansas negli anni Cinquanta, alla ricerca del proprio sogno americano, portando con sé erbe e saggezze non tutte necessariamente passatiste.
La mano femminile di Lulu Wang, 38enne regista e sceneggiatrice nata a Pechino ma dall’età di sei anni vissuta a Miami, governa Una bugia buona, la cui protagonista Bill Wang, dai palesi tratti autobiografici, è nata a Pechino ma vive a New York da quando aveva sei anni, e mantiene il suo contatto sentimentale con la Cina grazie a Nai Nai, la vecchia nonna ancorata alle tradizioni: all’apparenza indistruttibile, si ammala di cancro e figli e nipoti traslocano in Cina dagli Usa e dal Giappone, dove vivono, per riabbracciarla, improvvisando per la sua ignara tranquillità perfino un matrimonio che allontani qualsiasi sospetto. Ma Nai Nai, che capisce meglio e prima di tutti le dinamiche familiari ed entra subito in sintonia con l’americana Bill, ha probabilmente già accettato la sua stessa sorte.
Anche Tiepide acque di primavera (2019, passato quell’anno a Cannes ma solo ora in uscita in Italia) di Gu Xiaogang, 33enne regista cinese (anche sceneggiatore) nato a Fuyang, nella cui regione il film è ambientato, si apre come il precedente con una festa in onore della nonna della famiglia Yu, che si riunisce per il compleanno dell’anziana madre di quattro fratelli: il primo di questi è il proprietario del ristorante in cui si tiene la festa, il secondo è un pescatore in difficoltà economiche e abitative, il terzo un truffatore pesantemente indebitato con un figlio portatore di handicap, il quarto ha l’animo semplice di un bambino e da sempre è considerato un buono a nulla da tutti. Il film seguirà in parallelo i quattro fratelli e i loro figli nelle variegate vicissitudini sentimentali e criminali, nei loro rapporti reciproci, affettivi e d’affari, spesso più imperniati al gelo e all’ostilità che a forme di comprensione. Solo la matriarca saprà condividere l’amore tra i due giovani incompresi – e “perdonati” solo alla fine – del film, ambientato nel pieno del boom economico ed edilizio del 2008 (l’anno delle Olimpiadi di Pechino), devastante per il tessuto familiare e sociale della zona, nonché per la tutela dell’ambiente meraviglioso che circonda il fiume Fuchun.
Proprio navigando su quel “suo” fiume, Gu, che aveva finora all’attivo un racconto di fiction e un documentario (Planting for life) su un operaio che ritorna in campagna e abbandona i fertilizzanti chimici per praticare l’agricoltura biologica, srotola filmicamente le riprese in meravigliosi piani sequenza, lunghi carrelli paralleli alle rive (ma spesso la camera arretra, o avanza in zoom vero i personaggi). Primo capitolo di una trilogia, grande affresco collettivo, Tiepide acque di primavera trova ispirazione in Dwelling in the Fuchun Mountains (Abitare nelle montagne del Fuchun è infatti il titolo originale), antico, importante dipinto cinese del XIV secolo, un rotolo oggi diviso in tre pezzi che misura più di sei metri di lunghezza, opera di Huang Gongwang. L’opera d’arte si rivela una sorta di spirito guida per il regista, che illustra la storia della famiglia Yu come usando un rotolo senza tempo, e svelandone poco a poco ogni risvolto. Paesaggi mossi dal vento, campi lunghissimi e carrelli, accostano i vari racconti a comporre un armonioso mosaico su miserie e grandezze nelle vite di uomini semplici.
Tra le montagne e il delta del fiume Fuchun, luogo incantato che appartiene alle leggende della dinastia Qin e poi a quelle del regno di Wu, i piani sequenza di Gu sono come pannellate che delimitano, accompagnano l’altro grande protagonista del fllm, il tempo: è la vita ripresa al naturale, senza stacchi di luogo o trascorrere delle ore. La camera si alza e si abbassa, fluttua obliqua mentre si raccontano storie mitiche, all’opposto della razionalità implacabile anni 2000 del Pil e del danaro. E la costruzione pittorica dell’immagine annulla le differenze tra stile documentario e fiction. Siamo vicini all’opera del maestro Jia Zhang-Ke, Leone d’oro a Venezia 2006 con Still Life, film sulla diga dei tre fiumi. La quiete della campagna contro l’avidità della città e le sue regole speculative che fanno schizzare in alto i prezzi delle abitazioni, creando così un gran numero di nuovi poveri senza casa e aumentando il dislivello tra le generazioni. Il tutto nell’assenza (apparente) delle autorità politiche, che in realtà dietro le quinte garantiscono gli affari. Ma il film, tutto questo, lo fa solo intuire.
L’umanesimo di Gu sfida l’egoismo altrui rilanciando un concetto fuori moda nella Cina di Xi Jinping, l’anima. “Le anime comunicano, i genitori pensano ai figli e i figli ai genitori”, recita agli spettatori un lettore di Yin e Yang. L’ossessione per le cose materiali non cancella qualcosa di più alto e profondo, proprio della dimensione umana. Nel flusso generatore della narrazione, che è insieme flusso della vita della famiglia Yu, delle acque del Fuchun e delle sequenze del film di Gu, nel mutamento che accompagna le stagioni si potrebbe rintracciare una visione buddhista del ciclo della vita che rimanda a Kim Ki-Duk (Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera) e a Edward Yang (Yi Yi – e uno… e due…). Gu in realtà si serve di attori non professionisti per raccontare come gli antichi equilibri (familiari, sociali) si siano rotti e si cerchi di costruirne faticosamente, dolorosamente di nuovi. Il maestoso albero della canfora, vecchio di 300 anni, torna in più sequenze, rimandando al paesaggio naturale che nella Cina di oggi sembra quasi un gentile intruso, un fantasma, un’emanazione di tempi antichi.
Tiepide acque di primavera di Xiaogang Gu, con Zhenyang Dong, Hongjun De, Wei Mu, Liqi Peng, Youfa Qian, Zhangjan Sun