Giornalisti alla prova del romanzo. Riuscita quella di Antonio Del Giudice che porta in libreria ‘Il ragazzo che rubava le parole’, racconto di formazione tra la Puglia degli anni ’50 e l’approdo a Milano, vicenda individuale di maturazione e distacco dalle proprie origini sullo sfondo dell’Italia che cambia
Come si cresce, come si diventa adulti, nonostante tutti quelli che ti circondano e ti hanno cresciuto? Il ragazzo che rubava le parole (Castelvecchi, pagg. 135, 16.50 euro) è la storia di una formazione, di una maturazione ‘solitaria’ nella Puglia fra gli anni ’50 e ’60 del secolo breve. Solitaria benché il palcoscenico familiare sia quello affollato di una tribù vivace, bruscamente affettuosa e a tratti assai rissosa – soprattutto durante i pranzi domenicali dall’imperiosa e tirannica nonna paterna Ida, che al mercato della frutta e verdura comanda, impreca e viene alle mani come gli uomini – quando per conti che non tornano, per questioni di piccolo interesse, volano piatti e si sbattono porte.
È una storia novecentesca quella orchestrata in romanzo e ambientata ad Andria da Antonio Del Giudice, a lungo inviato di Repubblica e direttore di alcuni quotidiani locali del gruppo che un tempo si chiamava Repubblica-Espresso. Invano ci si cercherebbero echi delle grandi ribellioni (freudiane, kafkiane) contro l’ordine costituito della famiglia. Ci si trovano, con maggiore aderenza alla realtà, due moti paralleli che hanno accomunato molti di noi ‘born in the Fifties’: un forte legame di affetti con chi ti ha generato e instradato e, allo stesso tempo, l’impossibilità sempre più palese, sempre più esplicita – ma non gridata, non rivendicata – di calcare le loro orme. Non è il ‘tradimento’ che in questi anni ha messo su pagina in maniera esemplare Annie Ernaux, ma la solitudine di chi, primo della famiglia, fa il salto. Studia anche se all’inizio non ne è convinto, impara, farà un mestiere diverso da quello dei suoi, avrà una vita differente dalla loro, se ne andrà.
Il contesto è già chiaro in prima media quando lo svogliato protagonista, Andrea, viene respinto. È cresciuto in una famiglia dove non circolano libri – la madre che lo vuole ‘studiato’ bada a lui, ai fratelli e al marito, commerciante di ortofrutta – e ha scarsa dimestichezza con l’italiano, il latino gli sembra cosa lunare e per la matematica è convinto come suo padre che bastino le cinque dita. Però deve studiare, sua madre ha deciso così. «Primo di quattro figli, Andrea si avventurava su un cammino solitario. In casa, nessuno era in grado di fargli da guida. La madre ci provava con tanta buona volontà, nei ritagli di tempo che gli lasciava la cura della tribù. Alle medie, il ragazzo era arrivato debole e svogliato. L’analfabetismo di famiglia era in linea con l’Italia del Sud. Con la licenza elementare, lui era già il più istruito. Sua madre aveva fatto la quarta, suo padre era arrivato alla terza. I nonni erano analfabeti, tranne Ida, la nonna materna, che sapeva leggere il libretto delle orazioni. La scuola media era un lusso e una responsabilità e Andrea era stato caricato di una missione. Il padre gliel’avrebbe anche evitata, per portarselo al mercato della frutta all’alba, tutti i giorni. Lui, che aveva avuto per culla una cesta di limoni, non comprendeva l’importanza della scuola, dei libri e di tutto il resto. Per fare che cosa, poi? Sua moglie aveva insistito con fermezza, che agli occhi del marito appariva come un capriccio. Lei covava l’ambizione che i figli avessero una vita più degna della sua. Non gliel’aveva spiegato nessuno, ci era arrivata da sola e non si sarebbe arresa».
Andrea deve studiare e deve riuscire, perché se fallirà i tre fratelli minori non ci proveranno nemmeno. Così, grazie all’intercessione del parroco (sembrano secoli fa, ma allora un lavoro o una cura o un posto in cui stare si trovavano ‘con la lettera del prete’), viene spedito in una città del Nord a frequentare un collegio religioso, per poi entrare in seminario. Camerate gelide, un mesto odore di religione e criptofascismo (del resto è fascista, di un fascismo ingenuo quanto sfegatato, la sua famiglia di onesti faticatori: e sono interessanti le notazioni su questa nostalgia per la dittatura al Sud) con l’insegnante di musica che invita a seguire tre modelli: il Padreterno, Verdi e la Buonanima. Pasti mediocri, igiene sommaria (dedicarsi troppo alla cura del corpo è debolezza quando non peccato), regole rigide, letture corali obbligate (mentre consumano il pranzo gli leggono ad alta voce brani di Le mie prigioni nel paradiso sovietico e del Martirologio romano, a cena invece li intrattengono con il Galateo di Monsignor Della Casa), i preti sdegnati dall’ascesa al Quirinale di ‘quell’ubriacone comunista’ (è il socialdemocratico, più che moderato Giuseppe Saragat), un Piccolo mondo antico che Andrea riceve in regalo da uno zio sequestrato perché l’autore, agli inizi del ‘900, è finito all’Indice per le sue simpatie moderniste.
Riuscirà a prendere la licenza ginnasiale, Andrea, rinfrancato e malgrado tutto incuriosito dalle parole e dal mondo che intuisce, trattenendo la nostalgia per la famiglia, oltre quelle mura inospitali . Lo rimanderanno a casa perché non ha la vocazione, “non possiamo forzare la mano a Dio”, e sua madre commenterà acre: “Non ti hanno voluto nemmeno i preti”. Però frequenterà il liceo, andrà a Bari a studiare legge, per approdare a Milano – mentre un primo amore si sta dissolvendo – prendendo al volo la prima offerta di lavoro in un’agenzia pubblicitaria. Intanto è cresciuto e non soltanto anagraficamente. È maturato. Come? “Rubando le parole” appunto. Quelle del Filosofo, professore di liceo socialista e anarchico. Quelle di Don Clergyman, assistente spirituale alla Fuci, l’organizzazione degli studenti cattolici, che non indossa la tonaca, è malvisto da bigotti e beghine e lascerà il sacerdozio per sposarsi. Quelle dell’avvocato socialista barese Nicola Losapio che gli offre il primo lavoro come correttore di bozze. Quelle dei libri: Primo Levi, Il diario di Anna Frank, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. «Fenoglio gli apriva la testa. Il ‘fascismo buono’ di famiglia non la raccontava tanto giusta. Il padre, zio Nino, don Salvatore restavano persone perbene e oneste, ma la storia del fascismo non era quella che avevano tramandato ai figli. Il Nord raccontava quello che il Sud non sapeva».
Ecco, c’è questo superamento senza lacerazioni che fa diverso e importante il romanzo di Antonio Del Giudice (si leggano le pagine, colme di tenerezza, in cui Andrea si carica in macchina il padre anziano per portarlo a rivedere Comiso, la Sicilia e i luoghi in cui è stato giovane militare, tra le più belle del libro). E c’è, in controluce, una fitta rete di storie e aneddoti (il fascista Araldo Di Crollalanza, le lotte contadine, le ‘celebrità paesane ‘Gino Latilla e Walter Chiari) che danno l’esatta misura di quegli anni ’60 in cui il Sud, come molta parte dell’Italia, usciva non senza fatica da un lungo torpore.