Uno dei testi più forti di Harold Pinter trova, in Michele Placido, un regista in grado di coglierne l’amara complessità
L’amore al contrario. La Storia. Il crollo. È su questi tre concetti che si fonda la grandezza di un titolo come Tradimenti, di Harold Pinter. Un autore che non ha mai avuto paura di giocare con corsi e ricorsi, di sfidare la contemporaneità, di instillare nuovi paradigmi a partire da un’osservazione acuta – e critica – del reale.
Non drammatizziamo, è soprattutto questione di corna nel testo generativo che Pinter ha consegnato al pubblico dall’anno del debutto, il 1978. Il grande Harold, del resto, non le ha mai mandate troppo a dire: le sue opere, anche le più “astratte”, non hanno mai mancato di definire quale fosse il bandolo delle matasse da districare.
Dalle follie mondane di Party Time, ai buchi neri (e borghesi) della Serra, senza trascurare i sicari dubbiosi del Calapranzi – e tutte le altre meraviglie che il suo teatro ha prodotto negli anni -, nella pluralità immaginifica di Pinter c’è una questione semplice, basica, primordiale, corredata di autorevoli complicazioni, di matriarche imponenti, di copri-cornici di spessore.
Anche qui, in Tradimenti, la questione è semplice: la “storia” è finita. Se in certe opere di Pinter non c’è bisogno di sapere troppo sui personaggi, qui l’autore sente la necessità di dire tutto. Al contrario, però.
Nella triangolazione di un sentimento a tre vertici (marito, moglie, amico del marito e poi amante della moglie) il drammaturgo passa al setaccio, scarnificandole, le reti della Storia. O meglio: Pinter si diverte proprio a sovvertire ogni logica, mettendo in scena il depauperarsi di una passione e incastrandolo in una progressione che tende all’infinito. Non è «il granchio che va a ritroso»: è il granchio che cammina all’indietro sulle chele, pensando di andare avanti. E viceversa.
Non è un caso che pure la versione allestita da Michele Placido, in scena al Manzoni fino al 29 gennaio, sia connotata da una profonda impronta storicistica. Il triangolo, infatti, vive in maniera perimetrale (il gioco geometrico è voluto) le sfaccettature di un rapporto complesso e di trasparenza inesistente: il regista è quasi ossessionato dallo spirito originario della pièce, delineandone un’edizione – se non perfettamente solida – quanto meno interessante.
Aiutato da tre attori gradevolmente imperfetti (Ambra Angiolini, Francesco Scianna e Francesco Biscione), Michele Placido gioca alla deformità: quella degli specchi in cui si rivolgono i protagonisti, di un tempo bizzarro e capovolto, di un momento storico e ideologico – vedi alla voce: Sessantotto, qui mai citato ma evocato dal rosso fuoco in irruzione nella parte finale – che distrugge ogni illusione e che diventa pedana di de-costruzione. Il meccanismo reverse viene colto, da Placido, con compunta e insolita signorilità: il sentimento, sia in chiave amorosa che adulterina, viene trattato dal regista come fosse custode dichiarato di precarietà e debolezza.
L’intimità raccontata è, per l’appunto, lo specchio deformato di un ricordo, di una percezione: sui vetri fuori forma e fuori fuoco tornano, implacabili, gocce di pioggia e di passato, broccati veneziani, contrappunti di memoria.
Il non-sense prelude a una monca battaglia dei sessi, che in questo Pinter viene abortita dai primi sussulti, in un gioco di repressione sessuale oltre il sesso, che viene solo evocato, marginalizzato quale estensione inevitabile dell’adulterio: Emma e Jerry sostengono di amarsi, ma quanto interessa loro saperlo con coscienza, piuttosto che provare un sentimento vero?
In loro c’è la noia, tutta borghese e post-sessantottina, di chi dà per scontato il brivido erotico di uno sguardo, e lo confonde con la possibilità di poter mescolare le carte della propria esistenza. Forse è proprio questo l’approccio giusto per gestire la relazione; di certo è l’approccio giusto di un ispirato Placido, che attraverso una regia semplice, affidandosi alla parola (la traduzione è di Alessandra Serra).
E sul bacio finale, quando tutto si ricompone e torna alle origini, si prova un sentimento di assoluta, inevitabile empatia. Verso una rabbia superficiale, quella dei due protagonisti, verso un impeto che pensiamo possa renderci più misteriosi, migliori e amabili di quanto siamo in realtà. Non è così; chapeau sempre a Pinter per averlo scolpito sulla roccia, e a Placido per averne colto la complessità con significativo garbo.
Tradimenti, fino al 29 gennaio al Teatro Manzoni