Pax all’Opera: una Traviata russo-americana

In Musica

Il prudente e decorativo allestimento Cavani/Ferretti dell’opera verdiana viene riproposto alla Scala con due interpreti, l’americana Perez e la russa Netrebko, che si passano la staffetta nel ruolo che fu della Callas

«Oh gioia» grida Violetta prima di spegnersi nel finale de La traviata: la falsa guarigione più straziante mai scritta. Così a trombe e tromboni non resta che chiudere il sipario musicale su quest’eroina, che canta per tre atti con la condanna già scritta: fragile lucidità di una donna col fiore in bocca, e il fiore ovviamente è una camelia. È questa la carriera di una cortigiana secondo Verdi, l’opera più difficile da rappresentare al Teatro alla Scala, che dopo sessant’anni fatica ancora a considerare le proposte non-callasiane.

Eppure fino al 14 marzo si rivedrà nella versione di Liliana Cavani, un po’ à la Visconti, che Muti scelse per il pericoloso ritorno dell’opera nel ’90 dopo il disastro Freni del ’64, Karajan sul podio: «Tornatene in provincia» giurano di aver sentito – e forse anche gridato – alcuni presenti in sala, che la Divina ce l’avevano ancora negli occhi, prima ancora che nelle orecchie, a togliersi le scarpe a tempo come voleva Visconti.

Ma facciamoci forza: anche se non è passata, di certo «la convalescenza non è lontana». Così nelle prossime settimane si alterneranno alla Scala due Violette da parti opposte del globo: l’americana Ailyn Perez – fino al 5 marzo – , figlia di immigrati messicani con buona pace del suo presidente, e la russa Anna Netrebko – ultime tre repliche – , trionfante Giovanna D’Arco nella scorsa stagione, a cui si augura un altro successo in questo ruolo meno santo.

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Anche se in effetti Traviata ha una musica che è tutta intima santità, con al massimo qualche civetteria innocente qui e là: un Verdi più che mai femmineo, in totale identificazione con la sua Violetta, quasi come Cukor con la sua Garbo – non a caso insieme per Margherita Gauthier del ’36 tratto da La signora delle Camelie, stessa fonte di Verdi. In fondo è come se avesse detto anche lui: «Violetta Valéry c’est moi», in quelle melodie semplici e contenute, che si rafforzano a ogni ripetizione per vincere un’insicurezza iniziale, che è psicologica e musicale insieme. Frasi la cui densità di significato affonda nello spazio esiguo occupato in partitura, sia in verticale che in orizzontale. Ma è proprio grazie a questa concentrazione che l’opera raggiunge la sua straordinaria forma dialogica, quasi una prosa musicale di accuratissimo realismo emotivo.

In scena lo spettacolo hollywoodiano del terzetto Cavani-Ferretti-Pescucci, visto alla Scala per quasi vent’anni: due su tre da Oscar, la Cavani ormai è esclusa. Evidentemente era impossibile riproporre la versione dello scandalo delle zucchine, vale a dire la non brutta regia di Dmitri Tcherniakov di Sant’Ambrogio 2013, fischiatissima per quella scena tipo masterchef di Alfredo abbandonato che cucina nervosamente: non saranno le scarpe della Callas, ma sempre di realismo si tratta. Che sia meglio questo spettacolo prudente e decorativo, che segue pedissequamente le didascalie e con le pesanti scene di Ferretti che richiedono intervalli sopra la mezz’ora? Si tratta in fondo di una lettura un po’ acritica per la regista sadomaso de Il portiere di notte, che qui di materiale ne avrebbe avuto, viste le crisi isteriche di Violetta che «di voluttà» vorrebbe pure «perir». Certo però non mancano alcune raffinatezze, specialmente nel primo atto, il più trasgressivo, con gli ospiti un po’ ubriachi che sbandano in proscenio e si accasciano su splendide poltrone gattopardesche.

La lunghezza dello spettacolo diventa wagneriana nella lettura di Nello Santi, direttore per cui le morbidezze del secondo Novecento, da Karajan a Kleiber, sono passate invano, così come le febbrili, vibranti agitazioni di Toscanini e del suo erede in terra Muti. Così non sono molti i punti in cui si sente il dramma nel corso dell’opera: il suono non è mai particolarmente ricercato e l’orchestra è spesso pesante nel forte, fiacca nel piano. Eppure i preludi di primo e terzo atto sono belli, semplici e languidi con gli archi tenuamente divisi. E se in tutta la prima parte i tempi lenti di Santi fanno ristagnare l’azione, in altri momenti curiosamente funzionano, come nella partita a carte in cui non servono effettacci per sottolineare le tre frasi desolate di Violetta. Un dettaglio da notare è che tra una frase e l’altra di Amami Alfredo Santi non fa nessun crescendo, come in effetti è scritto, anche se il risultato ottenuto è un po’ vuoto: a volte servono dei compromessi. 

Gran terzetto di cantanti sulla carta, buono nei risultati. Ailyn Perez non sembra avere lo charme per le scene mondane, ma si rifà in quelle più intime, soprattutto in Addio, del passato nel terzo atto. Francesco Meli scurisce i recitativi, ma ha una voce così bella da rendere quasi tollerabile la cabaletta Oh mio rimorso!… Oh infamia…Leo Nucci infine si trattiene dal “rigolettare” troppo e canta Germont con qualche difficoltà molto ben gestita, ottenendo l’ovazione più fragorosa della serata. In attesa di vedere l’esibizione della Netrebko.

Giuseppe Verdi Traviata – Teatro alla Scala – Direttore Nello Santi – Regia di Liliana Cavani – scene di Dante Ferretti (repliche 3, 5, 9, 11, 14 marzo)

Immagini: Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

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