A “Tre manifesti a Ebbing. Missouri”, del londinese Martin McDonagh, sono andati 4 Golden Globe pesanti: a film, sceneggiatura, e a due dei suoi eccellenti interpreti, Frances McDormand e Sam Rockwell. Così questo ritratto di una cittadina sperduta nell’America profonda, sconvolta da un orrendo omicidio e dalla violenta reazione di una madre disperata e furente, parte in prima fila nella corsa alle “statuette”. A conferma che la “coenizzazione” del cinema americano alto dà ottimi frutti
Si può parlare di una piccola “coenizzazione” del cinema alto Made in Usa? Qualche indizio arriva dai recenti verdetti dei Golden Globes 2018, come è noto test assai attendibile in prospettiva Oscar. Se è vero che il film più attribuibile ai due geniali “brothers”, Suburbicon di George Clooney, di cui sono co-soggettisti e co-sceneggiatori, è stato a torto ignorato dai giurati, sono andati invece a Tre manifesti a Ebbing, Missouri, la cui ispirazione narrativa e visiva ai Coen è piuttosto trasparente, ben quattro e pesanti premi: quello riservato al film, alla sceneggiatura opera del londinese Martin Mc Donaugh che ne è anche regista (formazione teatrale con tre Laurence Olivier Award, nel 2009 nominato all’Oscar per lo script di In Bruges, autore tre anni dopo di 7 piscopatici) e ai due interpreti fondamentali, a Frances Mc Dormand, ovvero Mrs. Joel Coen, che l’Oscar l’ha già vinto 20 anni fa grazie a Fargo e al non protagonista, ma personaggio chiave del film Sam Rockwell, già Orso d’Argento a Berlino per la sua prova in Confessioni di una mente pericolosa (2002). E si potrebbe anche aggiungere, a margine ma fino a un certo punto, il riconoscimento a Ewan Mc Gregor, miglior attore televisivo nella miniserie Fargo, targatissima Coen.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri è il ritratto, a tratti anche comico, di una piccola città incapace di liberarsi dal velo d’orrore depositato dal crimine che non vediamo ma è all’origine dei fatti. Ai quali risponde, in apertura di racconto, con un gesto a suo modo mediatico anche se giocato in un luogo assai poco frequentato, Mildred Haynes (una strepitosa, furibonda, integralista ma asciuttissima Mc Dormand), madre di Angela, ragazzina violentata, uccisa e poi data alle fiamme per cancellare ogni traccia. Esasperata dall’incapacità della polizia di scoprire in sette mesi anche solo un indizio per risalire al (o ai) colpevoli dell’assassinio, di cui non si vede altro movente che non sia una cieca, disgustosa violenza sopraffattrice, compra tre remoti ma enormi spazi pubblicitari, su altrettanti pannelli che si susseguono a poca distanza lungo una strada provinciale ormai disertata dagli automobilisti. La sequenza di messaggi inchioda senza mezzi termini al suo insuccesso investigativo lo sceriffo Bill Willoughby (il “nato per uccidere” Woody Harrelson, che sfoggia qui la sua versione mite, quasi un po’ autunnale), un uomo civile oltre ogni contestazione, svuotato, si scoprirà poi, da una malattia terminale che gli lascia pochi mesi di vita e lo rende quindi bersaglio vulnerabile, anche a dubbi e incertezze.
Lei cerca vendetta e non immagina, cosa che invece il film via via sempre più suggerisce, alcuna altra risposta al crimine che le ha stravolto la vita. E così scaglia il suo gesto provocatorio, il cui scoperto obiettivo è non solo riaprire l’inchiesta ma dividere gli animi, far ribollire il sangue e la coscienza di una comunità in apparenza arresa all’impunità. Ebbing in effetti “si schiera”, ma prevalentemente contro di lei, portando allo scoperto spiriti di corpo altrettanto integralisti e impulsi all’isolamento di ogni disturbatore della quiete, per quanto autorizzato possa essere da un lutto orrendo, non chiarito e mai attenuato dall’azione della giustizia. Come si conviene ad ogni personaggio western, Mildred ha tratti forti, fisici e comportamentali, quasi maschili. Lo ricorda lo stesso regista: “Da come cammina e da come si comporta assomiglia a John Wayne o all’uomo misterioso degli spaghetti western, il pistolero che arriva al centro della strada con le armi in mano e lascia tutti senza parole. Lei però non ha alcuna pistola: è armata solo della sua intelligenza, di una lingua tagliente e di una molotov. Ma è il personaggio più implacabile che abbia mai creato, una donna che soffre, e senza rimorsi decide di mettere alla prova tutta la sua città”.
L’America lontana da ogni meanstream, che fa da sfondo al racconto, è impersonata in qualche modo assieme dai due nemici di tutto il film (Mildred e il vicesceriffo Dixon, che ha dato il meritatissimo Globe a Rockwell), opposti prototipi di un sentimento comune, fortissimo, di verità e giustizia, attraversato da una violenza disumana che troverà alla fine una sua benefica e imprevedibile catarsi, dopo la morte di Willoughby. È l’”altro” Paese, popolato di anime isolate, cantato da uno dei più bei western del crepuscolo (Missouri di Arthur Penn), un ultimo avamposto della civiltà prima della wilderness, che aderì all’Unione anche se ancora era in vigore la schiavitù. L’autenticità e l’incrollabile certezza delle pulsioni nasce qui da una solitudine tangibile, sorella di condizioni di vita modeste e figlia di un’immobilità in cui uno sceriffo è ancora l’uomo dai sette capestri che amministra una giustizia semplice, immediata, definitiva: e dunque non è dato che non trovi il o i mostri che hanno cancellato una vita poco più che adolescente, dunque pura, innocente. Un’America a noi quasi sconosciuta, che mai come in questi anni ha mostrato di essere così arrabbiata. Contro tutti, anche contro se stessa.
A Ebbing, dove ancora non si è digerito il percorso di civiltà dell’America degli ultimi cinquant’anni, si prendono di mira i neri e i gay fin quasi alla tortura, è questa la mission passatista quasi un po’ neo-trumpiana, ma in fondo nata molto molto prima, sempre esistita. Il resto non appare così importante, e i poliziotti, civili o no che siano, frustati dal gesto clamoroso di una madre (figura sacra, in teoria, anche dal loro lato della barricata), per uscire dall’angolo finiscono per criminalizzare proprio lei e il suo immenso dolore. Almeno finché qualcuno, anche fra i cops, cercherà di sfuggire alla legge della brutalità autistica del “noi” e “loro” mettendo in dubbio perfino la vocazione autoritaria e armata della società americana, fino a quel momento padrona indiscussa, da ogni parte.
Sostenuto da una scrittura precisa, venata di un umorismo nero e caustico che non lascia scampo ad alcuna delle sacre istituzioni americane (chiesa, politica, polizia), scandito da dialoghi impeccabili e da una progressione che di continuo rilancia la tensione, alzando le possibilità offerte da situazioni sempre in precario equilibrio tematico ed emotivo, questo neo-western crepuscolare guarda alla Nuova Hollywood anni 70 riprendendo temi cari, per esempio, alla coppia Schrader-Scorsese (la dialettica tra senso di colpa e redenzione), in uno spazio che sta tra black comedy e tragedia greca. Il tutto sulla più classica delle Main Street, dove molto accade, ideale palcoscenico a disposizione di personaggi che mai riescono ad essere granitici quanto vorrebbero sembrare.
McDonagh, che aveva già messo in discussione in 7 psicopatici la rappresentazione della violenza in autori “sacri” come Oliver Stone e Quentin Tarantino, qui si misura con un tragitto narrativo e spirituale, una riflessione su individuo e società, coscienza e convivenza, che con qualche benefico risvolto sarcastico conduce a una conclusione pacificata, sia pure in un altro mondo, un luogo destinato a manifestarsi, dopo tante, troppe aggressioni e morti, quasi come una sorta di al di là. Che in verità potrebbe essere anche solo una dimensione mentale.