Con XIII emendamento, doc finalista all’Oscar, la regista Ava DuVernay tira un robusto filo tra la vicenda della schiavitù dei neri americani e le politiche criminali che fanno sì che un nero su 3 abbia una probabilità su 3 di finire in carcere laddove la percentuale tra i bianchi è di 1 a 17. E quel filo si chiama razzismo
Né schiavitù o servitù involontaria, eccetto che come punizione per un crimine per cui il soggetto dovrà essere debitamente incarcerato, esisterà sul suolo degli Stati Uniti, o in ogni altro luogo soggetto alla sua giurisdizione.
Così sancisce il tredicesimo emendamento della Costituzione americana: ma si tratta realmente di una vera uguaglianza?
Dati e statistiche analizzate da studiosi, politici e attivisti dimostrano che l’abolizione della schiavitù è soltanto un’illusione. E le politiche di criminalizzazione degli afroamericani e l’aumento costante delle incarcerazioni rappresentano il sogno profondo che la lotta contro la discriminazione razziale è ancora tutta da combattere.
I numeri, infatti, ci appaiono impressionanti: gli USA rappresentano il 5% della popolazione mondiale. Il 25% è la popolazione incarcerata. La maggior parte di questi sono neri. Un uomo bianco americano ha 1 probabilità su 17 di finire in carcere. Un uomo nero americano ha invece 1 probabilità su 3. La regista ( e attivista) di Selma – La strada per la libertà Ava DuVernay non fa, nel suo documentario che si intitola appunto XIII Emendamento e che è stato finalista agli Oscar, sconti a nessuno: nonostante la successione tra presidenti repubblicani e democratici, il razzismo non è mai stato superato, semplicemente ha assunto procedure differenti. E le ragioni sono tanto semplici quanto inquietanti: le incarcerazioni di massa convengono a tutti, perché i detenuti , in quanto manodopera e non solo, sono assai utili a lobby e multinazionali fondamentali per gli interessi economici del Paese.
I bersagli del documentario sono tanti, ma alcune frecce dell’arco della DuVernay colpiscono particolarmente nel segno: i danni culturali procurati dal film Nascita di una nazione di D.W. Griffith; Ronald Reagan e la sua lotta alla droga a colore unico; Bill Clinton e la sua politica giudiziaria per meri fini propagandistici. E così le battaglie del movimento Black Lives Matter si fanno sempre più necessarie, giustificandone rabbia e indignazione.
Stiamo vivendo una stagione rara per il cinema a sfondo afroamericano: ben tre (su nove) i lavori candidati per miglior film agli ultimi Oscar (Barriere, Il diritto di contare, il vincitore a sorpresa Moonlight), addirittura quattro (su cinque) le opere nominate per miglior documentario con una chiara impronta antirazzista (oltre a XIII emendamento, il trionfatore OJ: Made in America, I Am Not Your Negro e in fondo anche il nostro Fuocoammare). Come spesso accade, il cinema si dimostra un valore politico e culturale fondamentale, una valvola di sfoga intellettuale e visiva in grado di rappresentare perfettamente il termometro sociale di cui siamo protagonisti. E un domani, di essere una testimonianza diretta di questo nostro tempo, tanto conflittuale quanto appassionato.