Un decennio di verismi e non-verismi in dialettico contrasto, alla ricerca di un nuovo gusto dell’opera italiana. Tre messe in scene per altrettanti grandi teatri lirici. La cena delle beffe alla Scala, Il Trittico all’Opera di Roma e La donna serpente al Regio di Torino riaprono il dibattito su uno dei temi caldi della cultura del nostro recente passato
Squarci di vita e cronache di morti annunciate, ma anche le solite, antiche maschere della commedia dell’arte. Opera di Roma, Scala e Regio di Torino dialogano tra loro, forse involontariamente, insistendo per una volta su titoli piuttosto rari dell’opera italiana: Il Trittico, La cena delle beffe e La donna serpente. Un arco temporale che va dal 1918, per i tre atti unici di Puccini – ma è del ’22 la versione definitiva –, al 1924, anno de Le beffe di Umberto Giordano, al 1930 per l’unica opera di Alfredo Casella.
Un decennio di verismi e non-verismi in dialettico contrasto, alla ricerca di un nuovo gusto dell’opera italiana, destinato però a non arrivare più. Così «il testamento mai aperto» del Falstaff verdiano – parole di Casella – scombussolò gli animi dei compositori di quegli anni, persino più del testamento di Buoso Donati del Gianni Schicchi di Puccini, cadavere caldo su cui si accaniscono i suoi parenti serpenti.
L’unico titolo comico del compositore toscano conclude una trilogia che si apre su una lugubre chiatta della Senna, scenario di una storia maledetta che sfocia in delitto, per attraversare poi un giardino di suicide non più vergini, relegate in convento da quelli che ben pensano, per la loro condotta scomoda. Così si passa dall’oscurità del Tabarro, all’apoteosi di Suor Angelica, per giungere infine alla beffa fiorentina del dantesco Schicchi.
E sempre a Firenze si compiono altre beffe, ma ben più truci. Sono quelle di Giordano, accompagnate dal dannunzianesimo spurio di Sem Benelli, librettista Grand Guignol attratto da torbide e fratricide atmosfere sadomasochiste. Quanto a Casella, egli aborriva ogni eccesso drammatico da cronaca nera, a differenza degli altri due. Per questo preferì affrontare una fiaba di Gozzi che trovava divertente – ma che forse voleva rendere antiwagneriana dopo Le fate, prima opera di Wagner tratta dalla stessa fonte.
Sicuramente l’atteggiamento compositivo di Casella è più strumentale che teatrale, proprio per quel pesante lavoro di assemblaggio stilistico che si sente in orchestra, segno evidente dell’eclettismo del compositore. La ricerca di Casella ha prodotto un pregiatissimo collage di suggestioni d’avanguardia, da Stravinskij a Malipiero, confinate però nei numeri musicali di un melodramma tradizionale. E questa distanza tra la buca e il palcoscenico resta incolmabile: i cambi di carattere sono troppo frettolosi, così com’è freddo e distaccato lo sguardo sui personaggi, tanto da far pensare più a un lunghissimo poema sinfonico che a un’opera.
Allora meglio Giordano, laido e scurrile nelle grida orchestrali, ma sempre sul filo dell’azione, sempre scattante nonostante l’assenza di qualsiasi psicologia. Un verismo spudorato, molto distante dal clima espressionista tratteggiato invece da Puccini per esempio nel Tabarro, che, per dirla con Fedele D’Amico, sembra un’anticipazione del Wozzeck. Puccini si serve degli strumenti veristi solo per superarli, e li priva di quella retorica d’effetto, per volgerli finalmente in chiave moderna.
Come Casella anche Puccini attinge dalle avanguardie europee, senza però limitarsi a un citazionismo sterile. Un esempio su tutti è l’organetto della Petruška di Stravinskij, citato da entrambi i compositori. Ma se per Casella vale sempre la tentazione dell’antologia, di una varietà stilistica solo formale, in Puccini c’è il teatro al primo posto. Così l’organetto che si sente all’inizio del Tabarro viene stonato apposta, e diventa un commento sarcastico alle danze grottesche degli scaricatori di porto.
Venendo alle messe in scena, Mario Martone sposta l’azione de La cena delle beffe agli anni della composizione, ma spedendo bulli e pupe medicei al di là dell’oceano, in una Little Italy di gangster ereditata da Padrini e Intoccabili del cinema americano. Alla fine, facendosi prendere un po’ la mano, li mitraglia tutti prima che cali il sipario.
La donna serpente è affidata invece alla regia di Arturo Cirillo, talentuoso teatrante di prosa ben noto per autori come Ruccello, Williams e Albee, che ha pensato lo spettacolo per il Festival della Valle d’Itria. Sul palco del Regio la scena ha probabilmente perso di fascino, rispetto all’effetto che doveva avere a Martina Franca: mezzelune astratte vengono spinte per il palco, ma sono chiaramente pensate per l’esterno. La regia di Cirillo ha comunque il pregio di seguire senza troppa fatica una trama incomprensibile che si snoda tra incantesimi e ricatti stregati. Restano però evidenti certe goffaggini nei movimenti delle masse corali.
Infine Michieletto riesce nell’impresa di dare unità a tre opere tanto diverse come gli atti unici del Trittico, accostati da Puccini proprio per il loro contrasto drammatico. Dal Tabarro, Suor Angelica prende in prestito il soprano, Gianni Schicchi il baritono. Così Lauretta, perduto l’amante, viene rasata e rinchiusa in convento come Angelica, mentre Michele riappare in versione comica come Gianni Schicchi nel brillante atto fiorentino.
I sudici container del porto del Tabarro scoprono le pareti in Suor Angelica, e rivelano le celle e la lavanderia di un convento-carcere ispirato a Magdalene, il film di Peter Mullan esplicitamente citato dal regista. Infine la casa di Buoso Donati si articola in un saliscendi di piani ricoperti da tappezzeria floreale e mobili da rigattiere. Ma è di nuovo il contenuto dei container, i quali si richiuderanno alla fine «con licenza del gran padre Dante».
Senz’altro Michieletto ha spesso la tentazione di rivoltare i libretti: se è scritto che c’è il sole lui probabilmente farà piovere, e viceversa. Ma si tratta solo di circostanze esteriori, perché è invece fortissimo il senso teatrale dei suoi spettacoli, almeno all’opera. Quindi se il bambino di Angelica non è morto non è per provocazione, ma solo per risolvere il problema della trasfigurazione finale. Michieletto evita così di far comparire la Madonna in persona davanti alla suora suicida, come il libretto prevedrebbe: qui il bambino si getta invece sul corpo della madre con vero realismo cinematografico.
Ottime le prove dei direttori. Strepitoso Gianandrea Noseda, appassionato e profondo conoscitore della partitura di Casella, intensissimo in tutte le repentine metamorfosi stilistiche dell’opera: dai momenti buffi con le maschere alle struggenti interruzioni strumentali, ai virtuosistici ballabili che abbondano – l’opera era pensata inizialmente come «balletto-corale». È poi perfettamente a suo agio Daniele Rustioni nel Trittico, che si trattiene da quell’enfasi che spesso esagera quando affronta Verdi. Infine Carlo Rizzi alla Scala segue con precisone l’esaltata scrittura di Giordano.
Grande qualità nel cast de La donna serpente: rigorosa Carmela Remigio, specialmente nei difficili madrigalismi del ruolo di Miranda, come nella citazione leopardiana all’inizio del terzo atto “Vaghe stelle dell’Orsa”, elegante Piero Pretti nella parte di re Altidòr. Convincente il secondo cast visto nel Trittico, con Asmik Grigorian come Giorgetta e Angelica e Kiril Manolov come Michele e Gianni Schicchi. Quanto ai tenori, buona prova per Antonello Palombi, Luigi nel Tabarro, meno per il Rinuccio di Matteo Falcier. Discreta “O mio babbino caro” di Ekaterina Sadovnikova. Quanto a La cena delle beffe, credibile Marco Berti nell’arduo ruolo di Giannetto Malespini, ottimo il Neri Chiaramantesi di Nicola Alaimo, più in difficoltà Kristin Lewis come Ginevra.
Immagine di copertina: Trittico, Il tabarro Asmik Grigorian (Giorgetta), Kiril Manolov (Michele) ® Yasuko Kageyama, Opera di Roma 2015/16