Il Trono di spade: emarginati e potere

In Letteratura, serieTV

Una cosa è evidente nel mondo di Westeros: nella scalata al potere non possono vincere i puri di cuore, il trono di spade non ammette idealisti

Che colore ha il potere? Quello delle bandiere nazionali, il rosso dell’abito cardinalizio o il nero delle toghe dei magistrati? Dopo cinque stagioni televisive de Il trono di spade e i primi cinque libri de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di Martin, credo che la risposta giusta sia meno prevedibile. Il potere dovrebbe scegliere il bianco e nero per rappresentare se stesso. Non il bianco e nero che nega le sfumature del mondo ma quello delle foto d’epoca. Quelle che ritraggono i capi di Stato di fine Ottocento in posa impettita ed espressione severa disegnata sul volto, cristallizzati nel immagini a colori dei moderni capi di Stato è difficile provare la stessa sensazione; basta guardare il presidente degli Stati Uniti il giorno del suo insediamento e al termine del suo mandato. Il colore e le immagini con una definizione sempre migliore sono in grado di restituire in maniera spietata ogni nuova ruga o singolo capello bianco, pagati al fardello del potere. Perchè il potere logora gli uomini e gli ideali che li muovono e, nel mondo creato da Martin, questa è una massima che i partecipanti al gioco del trono dovrebbero conoscere molto bene; una delle poche in grado di accomunare la girandola di personaggi in lotta nei Sette Regni e aldilà del Mare Stretto.

Gran parte del successo della saga delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco è dovuta all’estrema varietà dei caratteri che è possibile incontrare in Westeros. È impossibile non trovare almeno un personaggio in cui identificarsi e per il quale fare il tifo. È Impossibile non trovarne uno da odiare senza remore. Eppure, amati o odiati, tutti riescono a rimanere impressi nell’immaginazione di chi li legge (o guarda). Martin ha saputo creare uomini e donne tridimensionali con caratteri così bene definiti da rendere credibile ogni loro azione. Caratteri complessi che si allontanano di molte miglia dalla classica suddivisione dei personaggi in positivi e negativi. La popolazione del Trono di Spade è tragicamente umana ed è per questo che è così difficile non trovarla estremamente affascinante nel suo complesso. Lo sviluppo delle singole narrazioni ci rende possibile comprendere ogni scelta, per quanto crudele o disumana possa essere, a patto di “entrare” nella testa e nell’ordine di idee del personaggio di turno che in quel momento ci presta la sua prospettiva.

Come mi comporterei nei panni di Tyrion? Di Jon Snow? Dell’ultima dei Targaryen? E dei tanti altri che hanno lottato e spesso sono caduti per ottenere il potere? Ma, soprattutto, sarei in grado di scendere a compromessi e di mutare ciò in cui credo fino a stravolgerlo del tutto?

Dopo decine di ore di serie e migliaia di pagine è una domanda che il fan de Il Trono di Spade si fa spesso. Perchè una cosa è evidente nel mondo di Westeros, e quindi anche nel nostro: nella scalata al potere non possono vincere i puri di cuore. Non possono vincere gli idealisti intransigenti. Quelli che per un obbiettivo più alto, anche se positivo, non sono diposti a prendere decisioni crudeli. Chi non ha chiaro questo punto spesso paga con la vita. Eddard Stark è l’archetipo del signore cavalleresco. Giusto, onesto, fedele alla famiglia, alle sue responsabilità e alla parola data. Proprio per questo è uno dei primi a morire nel gioco del trono. Una morte che vista in prospettiva sembra davvero un monito da parte di Martin. Gli Eddard non durano a lungo nel suo mondo. A questo riguardo è lapidaria una frase di Jorah Mormont, il cavaliere dell’orso che ha scelto di dedicare la sua spada al servizio di Daenerys. Parlando di suo fratello, Rhaegar Targaryen, con chi lo portava a esempio di indiscussa cavalleria e virtù risponde: “Rhaegar ha combattuto con valore, Rhaegar ha combattuto con nobiltà, Rhaegar ha combattuto con onore. E Rhaegar è morto”.

Il principe Rhaegar era amato dai sudditi che speravano un giorno di poterlo chiamare re. Il principe è morto prima di poter essere incoronato. Per poter arrivare al comando è naturale farsi dei nemici, ma il difficile arriva dopo. Si può comandare essendo odiati da tutti o da tanti e, paradossalmente, è la seconda opzione quella peggiore. Basti pensare a Daenerys Targaryen e alla sua quasi messianica ascesa al potere. Una parabola così fulminanate e carica di aspettative positive che nell’ottica di Martin non poteva durare a lungo. La giovane regina è un’idealista, e spesso rasenta l’intransigenza. Spesso contraddice i suoi consiglieri preferendo la decisione più giusta a quella più saggia. La sua è una verginità morale che non può durare per sempre e questo diventa più evidente man mano che aumentano il potere e le responsabilità. Non è un caso che nei forum dedicati alla serie televisiva, la Daenerys della quinta stagione sia precipitata dal piedistallo diventando uno dei personaggi più criticati. Fare i conti con la realtà, e i compromessi che richiede quotidianamente, può deludere anche i seguaci più fedeli, siano essi fan o sudditi di Yunkai. A Westeros, godere dei frutti del potere è ancora più devastante che ottenerlo, soprattutto se si teme la solitudine. Chi disegna la sua storia personale come una lotta contro il mondo intero sembra molto più a suo agio nel reggere questo fardello. Cersei e Tywin Lannister, i Bolton padre e figlio e, non ultimo, Lord Petyr Baelish alias Ditocorto, combattono da soli circondati da nemici e solo pochi ed effimeri alleati persuasi con l’oro, il ricatto o la paura. Tutto diventa lecito o necessario in nome dell’ambizione che li muove. Una prospettiva tanto amara quanto realistica. Come scritto da John Stuart Mill “gli uomini malvagi non hanno bisogno che di una cosa per raggiungere i loro scopi, cioè che gli uomini buoni guardino o non facciano nulla”. Oppure che siano morti nel tentativo di ostacolarli.

Con gli Eddard e l’ultimo principe dei Targaryen muore quindi anche la speranza di un mondo se non proprio giusto, almeno decente? Forse no. Nelle sue Cronache Martin non ha ucciso l’ideale di virtù cavalleresca, fatta eccezione per Brienne di Tarth, che non a caso è una donna, ma lo ha soltanto occultato molto bene. Lo ha mimetizzato sotto i panni dei reietti, degli emarginati dalla società feudale di cui scrive. Così è proprio dagli ultimi che arrivano gli esempi più positivi di esercizio del potere. Jon Snow, bastardo della famiglia Stark, arriva a comandare i guardiani della notte. Un rango guadagnato grazie a un percorso di crescita e maturazione che lo renderà in grado di affrontare alcune delle decisioni più dure, mai prese dai guardiani, in millenni di storia della loro istituzione. Ma è sicuramente un altro “bastardo” che dimostra il proprio valore nel ruolo di “mano del Re” e risponde al nome di Tyrion Lannister, figlio di Tywin che non perde occasione per dimostrare disprezzo nei confronti dell’ultimogenito. Tyrion ha dedicato la sua brillante intelligenza all’unico scopo di mettere in discussione l’autorità paterna e con essa quella della casata dei Lannister. La classica pecora nera di famiglia, un giudizio che la nobiltà di Westeros condivide per volontà di Tywin Lannister. Quando Tyrion viene inviato ad Approdo del Re per governare in vece del padre, dà dimostrazione di grandi abilità di leadership, sia durante l’assedio che nell’amministrazione della città. Ma nè Tyrion nè Jon Snow hanno trovato, per il momento, un riconoscimento delle proprie abilità. Non basta, un colpo di spugna per liberarsi del pregiudizio, ma l’amore dei lettori, e dei fan della serie tv, è una gratificazione niente male.

Immagine by Mark Turner

(Visited 1 times, 1 visits today)