“Il trovatore”, alla Scala fino al 29 febbraio, alterna passato e presente, tempo del racconto e tempo dell’azione. Alvis Hermanis inscena il dramma in un museo, simbolo dell’interazione tra le epoche storiche. Ma non è aiutato dalla direzione di Luisotti che modifica i tempi con eccessiva disinvoltura
Era da settimane che si mormorava che il nuovo Trovatore in scena alla Scala non sarebbe “passato”. Del resto, bastava un giro su YouTube per rendersi conto che l’allestimento tipo Una notte al museo del lettone Alvis Hermanis, già visto a Salisburgo qualche anno fa, avrebbe fatto infuriare parecchi spettatori più o meno disponibili ad attivare le sinapsi quando vanno all’opera. E così molti hanno temuto (i maligni persino sperato) contestazioni in sala, dibattiti in foyer più o meno amichevoli, più o meno trasportabili a cena una volta usciti da teatro. In effetti le contestazioni ci sono state. Ma a dirla tutta, ogni discussione è stata liquidata molto prima del previsto. E per il motivo peggiore: non c’era granché da dirsi.
Pensare che a prima vista non mancavano le premesse per ragionare sulle scelte del regista, o quantomeno per divertirsi un po’. In fondo il libretto del Trovatore, delirante ma a suo modo geniale, alterna in continuazione passato e presente, tempo del racconto e tempo dell’azione, dato che praticamente ogni personaggio ha un antefatto da raccontare: chiunque lo metta in scena deve fare i conti con frenate continue e non del tutto razionali. È proprio per questo che Hermanis, con baltico sense of humour, ha deciso di accentuare la confusione spaziotemporale, e ha ambientato l’opera nel luogo simbolo dell’interazione tra le epoche storiche: un museo. Per di più il regista ha fatto assumere i protagonisti nella sua pinacoteca: Ferrando fa da guida (“All’erta! All’erta!” per richiamare un gruppo di turisti in calzoncini), così come Azucena, Leonora sorveglia una sala, il Conte di Luna è il guardiano notturno. Quando poi i visitatori se ne vanno, il museo si anima. E si scopre che non solo c’è un trovatore che gironzola tra i Leonardi e i Raffaelli, ma che ogni personaggio ha un suo alter ego in vermigli abiti quattrocenteschi.
In fin dei conti non si può dire che l’impostazione di Hermanis non sia chiara. Semmai vale la pena chiedersi perché la maggior parte dei tentativi di Regietheater applicati all’opera italiana finiscono per non prenderla sul serio. Ma questo è un problema generale. Qui invece il problema è decisamente particolare dato che, impostazione a parte, sembra che Hermanis abbia deciso di non fare altro, se non si conta un gran via vai di quinte mobili con quadri appesi, pensati a quanto pare come rimandi archetipici (quindi Madonne da tutte le parti), e che invece risultano quasi sempre semplici didascalie. Alla fine il museo viene svuotato e le tele accatastate in malo modo mentre la Monastryska canta “D’amor sull’ali rosee”, tra l’altro molto bene. Solo che a quel punto i prigionieri siamo noi, perché l’ultima parte dell’opera, la quarta, è “pensata” (se così si può dire) sostanzialmente in forma di concerto. E non è mai sembrata così lunga.
Anche perché la direzione di Nicola Luisotti non ha certo aiutato: passo tendenzialmente allargato e solenne, ma più nelle intenzioni che nei risultati. Pochi colori e molta, troppa disinvoltura nel modificare i tempi, come a pentirsi delle scelte appena prese, per non parlare dell’abuso del rubato, del rallentando, o al contrario degli improvvisi momenti di concitazione, in cui Luisotti stringe e affretta a tutto spiano, rischiando di cascare in soluzioni un po’ grossolane. Ma tanto, assicura Caruso, per far funzionare un Trovatore bastano “solo” i quattro più grandi cantanti del mondo. Forse alla Scala non erano proprio i più grandi, ma per tre quarti è andata molto bene.
Solo Massimo Cavalletti era fuori forma e in evidente difficoltà per l’alta tessitura della parte di Luna. Francesco Meli ha dato sfoggio di tutto il suo lirico armamentario di mezze voci e sfumature, con una memorabile “Ah, sì, ben mio”, e se solo avesse lasciato perdere il do (o quasi) della Pira, di cui non c’era alcun bisogno, la sua sarebbe stata una serata perfetta. Liudmyla Monastyrska è ancora una sicurezza, e se anche l’espressione non è delle più emozionanti, quel che riesce a fare con filati e legati basta a farne una Leonora di prim’ordine. Ma la vera sorpresa di questa produzione è senza dubbio Violeta Urmana, che a quasi sessant’anni è di gran lunga la più energica in scena: la sua è una Azucena dalla disperata vitalità, con una specie di nevrosi allucinata e commovente che si stempera in un fraseggio nobile, sempre più difficile da trovare in un artista.
Fotografie © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala