Jay Roach racconta la vita dello sceneggiatore più famoso d’America (grande Bryan Cranston): le liste nere, il carcere, il lavoro oscuro, i due Oscar finali
Alla fine degli anni ’40 Dalton Trumbo, protagonista del film omonimo di Jay Roach, era lo sceneggiatore più ricco di Hollywood e quindi del mondo intero. Pochi mesi dopo, quello stesso uomo si troverà rinchiuso in una cella, condannato a un anno di carcere. La sua colpa: oltraggio al Congresso degli Stati Uniti, per essersi rifiutato di rispondere alle domande della Commissione per le attività antiamericane, appellandosi al Primo emendamento della Costituzione Usa.
La sua vera colpa: essere comunista e non aver paura di rivendicarlo nell’America spazzata dal gelido vento della Guerra fredda. Il comunismo, come Trumbo spiega alla figlia bambina, per lui è semplicemente il desiderio di dividere quello che hai con qualcuno che non ha niente, un diffuso bisogno di giustizia e di onestà. Ma per i crociati dell’American Legion anche solo una vaga simpatia per il comunismo rievoca il fantasma immenso e ringhioso dell’Unione Sovietica, scatenando le peggiori accuse di “tradimento”.
Dopo la prigione, gli anni bui proseguono. Trumbo è stato espulso dalla Screen Writers Guild, l’associazione professionale degli sceneggiatori, e inserito nelle cosiddette “liste nere”, di fatto messo al bando. Mentre il senatore McCarthy impazza, a Hollywood John Wayne e Edda Hopper distribuiscono patenti di patriottismo e anatemi contro i “rossi”: c’è chi è disposto a rinnegare tutto, e tradire anche gli amici più cari, e chi semplicemente se ne sta in un angolo a occhi bassi in attesa che la bufera passi.
Intanto molti lavorano lo stesso, sotto falso nome. È il caso di Trumbo che in incognito conquista addirittura due Oscar (per il celeberrimo Vacanze romane nel 1954, e anche per il misconosciuto La più grande corrida nel 1956). Altri non ce la fanno a resistere e si suicidano, o si ammalano e muoiono. Anni lunghi, bui, che sembrano non finire mai; nel film sono raccontati con dovizia di particolari, mostrando Edward G. Robinson piegato dal ricatto e il futuro presidente Ronald Reagan perfettamente a suo agio nel ruolo del delatore. Ma senza dimenticare gli altri, da Humphrey Bogart a Lucille Ball, che comunisti non erano stati mai, ma sinceri democratici sì, e non si stancheranno di rivendicare il diritto di tutti alla libertà di pensiero e opinione, a Hollywood come nel resto d’America.
Solo nel 1960, finalmente, la bufera passa, in un’America illuminata dal sorriso (forse finto, forse troppo fotogenico, ma sicuramente rassicurante e contagioso) di John Fitzgerald Kennedy e da una smagliante nuova edizione dell’eterno sogno americano: le ombre cupe del maccartismo si dissolvono e si può tornare a respirare. Alla porta di Dalton Trumbo si presentano così Otto Preminger e Kirk Douglas, e gli chiedono di fare quello che ha sempre fatto, scrivere una grande sceneggiatura, ma questa volta senza nascondersi sotto un falso nome. Nascono così Exodus diretto da Preminger e Spartacus per la regia di Stanley Kubrick.
A dare voce e corpo a Dalton Trumbo c’è un attore immenso come Bryan Cranston (il Walter White di Breaking Bad) e grazie alla sua performance straordinaria quello che potrebbe essere solo folklore (la sigaretta eternamente appesa al labbro e i bicchieri di whiskey ingollati a raffica, la macchina per scrivere in bilico sulla vasca da bagno, le pasticche di Benzedrina succhiate come fossero mentine) diventa una realtà viva e appassionante. E l’America maccartista e cupa rischia quasi di apparirci allettante, con quella sua frenesia di vita e creatività, ricostruita con grandissima attenzione per ogni minimo dettaglio d’epoca, dai cappellini della perfida Edda Hopper (una grandissima Helen Mirren, al servizio di uno dei personaggi più odiosi della sua carriera) ai vistosi gessati, dalle radio vintage agli occhiali di tartaruga.
Un film da vedere per molti motivi, dall’ottimo cast (dove spiccano anche John Goodman esilarante produttore di B-movie e Michael Stuhlbarg nei panni di E. G. Robinson) alla sontuosa ricostruzione d’epoca. Ma soprattutto perché la storia dei “Dieci di Hollywood” e delle liste nere del maccartismo è una di quelle che ogni tanto conviene ripassare, perché non si può correre il rischio che vada perduta, e un giorno qualcuno possa dire: Non so. Non ricordo. Forse non è mai successo.