“Truth” di James Vanderbilt, cioè il più grande scandalo insabbiato dalla Cbs nell’era Bush jr. Ovvero come il presidente che avrebbe scatenato la guerra in Afghanistan e Iraq usò da giovane i suoi rapporti familiari per evitare di combattere quella del Vietnam. Robert Redford (il mitico anchorman Dan Rather) e Cate Blanchett (la premiata reporter Mary Mapes), eroi di un tv di denuncia, ci rimisero il posto. Da allora il giornalismo investigativo, soprattutto sul video, si è arreso all’infotainment e ha fatto molti passi indietro, non solo negli Usa. Sotto, la decina d’oro dei titoli a tema secondo Cultweek
Per affrontare un film come Truth bisogna confrontarsi con due diversi approcci. Il primo è quello della vera storia che sta alla base del racconto. In breve, nel settembre del 2004, a ridosso delle elezioni presidenziali statunitensi, la Cbs manda in onda una puntata di 60 minutes, il piú prestigioso programma di approfondimento giornalistico della tv Usa, condotta dal giornalista più famoso, Dan Rather, e a cura della pluripremiata Mary Mapes e della sua squadra. La trasmissione racconta come, nell’ormai lontano 1973, il futuro patriottico e guerrafondaio presidente in carica, candidato per un secondo mandato, George W. Bush, avrebbe sfruttato rapporti famigliari per finire nella Guardia Nazionale dell’Aeronautica anziché rischiare di andare a combattere in Vietnam. Una bomba giornalistica che avrebbe potuto spostare gli equilibri elettorali a favore di Kerry. Invece si scatena un’autentica caccia alle streghe in cui la notizia di Bush imboscato viene affogata dal fatto che il servizio fosse basato su fotocopie e non su documenti autentici. Disinformazione pura, in stile Kgb.
Quella puntata é costata il posto a Mary Mapes e alla sua squadra, oltre alle dimissioni forzate di Rather. Mapes non ha piú lavorato come cacciatrice di storie (per inciso lei e i suoi sono quelli che disvelarono al mondo, proprio attraverso 60 Minutes, le torture e gli orrori compiuti dai militari USA ad Abu Ghraib) ma ha scritto un libro per ricostruire la vicenda che è costata il lavoro a molti. Su quella base James Vanderbilt ha elaborato la sceneggiatura di Truth e ha esordito alla regia. Non prima di essersi assicurato due mostri sacri nei panni dei protagonisti: Cate Blanchett come Mary e Robert Redford come iconico Dan.
Giá, perché la storia che viene raccontata non è quella di Bush imboscato (fatto peraltro mai smentito) ma la costruzione giornalistica della puntata, le interviste, le conferme, i dubbi, insomma tutto il lavoro di indagine volto a scoprire e confermare un fatto.
Questa la prima parte, perché poi c’è la lapidazione e il voltafaccia della Cbs, piú preoccupata di mantenere buoni rapporti con il potere che di difendere il lavoro del suo team. E alla fine, quando il giornalismo finisce tra le mani degli avvocati, non è piú la veritá fattuale ad essere importante, ma la veritá degli azzeccagarbugli.
Nonostante tutto sia già conosciuto nei suoi esiti, il racconto di Vanderbilt riesce a mantenere vive la suspense e l’attenzione, grazie ai protagonisti ma anche ai comprimari, dove spiccano le presenze di Stacy Keach come tenente colonnello Bill Burkett, ossia l’uomo che materialmente fornisce i controversi documenti, e con lui un ritrovato Dennis Quaid che fa il tenente colonnello Roger Charles, veterano chiamato a lavorare nella squadra come investigatore per le questioni militari (nella realtá la vera molla del servizio su Abu Ghraib).
Da tempo la tv e il giornalismo in generale hanno abbandonato il lavoro di inchiesta fatto per smascherare le malefatte dei potenti: e oggi si preferisce l’infotainment dove gli uomini di potere sono invitati come fossero rockstar oppure altri devono dare la stura a esibizioni e provocazioni vergognose. Questione morale, prima ancora che giornalistica. E il film di Vanderbilt, pur nel solco della tradizione e senza particolari invenzioni, lo ricorda, senza rabbia ma con sacrosanta indignazione.
Truth, di James Vanderbilt, con Cate Blanchett, Robert Redford, Stacy Keach, Dennis Quaid
DIECI FILM MITICI SU GIORNALISMO E POTERE
IL CASO SPOTLIGHT. Partiamo dall’ultimo, il film di Tom McCarthy con Mark Ruffalo, Michael Keaton, Stanley Tucci e Rachel McAdams, che ha appena vinto l’Oscar. Al Boston Globe, nel 2001, la miglior squadra di cronisti si mette alle calcagna di qualche prete sospettato di comportamenti pedofili. Per scoprire che l’opera di copertura delle mele marce, che sono tante, arriva fino in cima alle gerarchie. Ecclesiastiche, ma non solo.
TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE. È il titolo bandiera, perché lo scandalo di spionaggio politico chiamato Watergate, che nel 1974 portò alle dimissioni del presidente Richard Nixon, è l’esempio più celebre della modalità “giornalisti coraggiosi versus l’establishment politico di Washington”. I protagonisti erano Robert Redford e Dustin Hoffman giovani, belli, dinamici, mentre in regia c’era un signor director, Alan. J. Pakula.
QUARTO POTERE. Da principio ci fu Orson Welles, un po’ per tutto in verità. Regia, luci, interpretazione, tematica. Per molti è il più bel film della storia, come Orson (protagonista nel ruolo del folle magnate della stampa Kane, in realtà Hearst), il regista più visionario di tutti. Il film, un’indagine quasi noir sulla sua morte e la sua vita, si muove tra espressionismo, psicanalisi, invenzioni pure di cinema. Welles lo girò (1940) a 25 anni: vedete voi.
QUINTO POTERE. Il film più feroce, per qualcuno anche più isterico, contro le menzogne della tv-spettacolo (di certo molto anticipatore, è del 1976), diretto dal grande, Sidney Lumet. Un conduttore in crisi di ascolti (Peter Finch, strepitoso) annuncia l’imminente suicidio in diretta, e diventa da quel momento, spinto dalla produttrice senza scrupoli Faye Dunaway (brava non da meno) il guru-ispiratore d’un pubblico, come lui, sempre più incazzato.
PIOMBO ROVENTE. Chi non ricorda lo struggente Humphrey Bogart (1952) declamare al telefono, nel bel film diretto da Richard Brooks, “E la stampa, bellezza! E tu non ci puoi fare niente!”. Nell’inchiesta contro il malavitoso italiano Rienzi (sic!), che nella versione tradotta per noi diventa il gangster est-orientale Rodzich, il reporter Bogey si mette contro tutti, compresa la proprietà del giornale. Oggi si faticherebbe a credergli, ma come film di S/F.
SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA. Rappresenta l’Italia, forse non il film più riuscito sui giornali, ma quello più indicativo del clima politico molto acceso dei primi anni Settanta, post strage di Piazza Fontana, messo in immagini da Marco Bellocchio. Come in “Indagine”, Gianmaria Volontè si accanisce contro i ragazzi della sinistra extraparlamentare. Non è più poliziotto, ma capo-redattore: però la differenza non si riesce quasi a vederla.
L’UOMO CHE UCCISE LIBERTY VALANCE. Che c’entra un magistrale western un po’ crepuscolare firmato da John Ford nel 1962 con la coppia John Wayne-James Stewart e in più Lee Marvin, John Carradine e altri giganti? C’entra, c’entra, perché il senso sta nella domanda finale del film: “tra la verità e la leggenda, cosa devo stampare”? Cioè, fa vendere di più la realtà mitizzata o i crudi fatti che smontano gli eroi?. A voi l’ardua sentenza.
FROST NIXON. C’è di mezzo di nuovo Nixon, ma stavolta è il protagonista della lunga e clamorosa intervista tv che concesse a David Frost, giornalista frivolo prestato alla politica, dopo l’impeachement, nella quale finì per confessare le sue malefatte. Il film, diretto da un Ron Howard misurato, perfetto, ricostruisce la nascita dello special e la spettacolare messa in onda. In campo il luciferino Frank Langella e il sorridente Michael Sheen, che vincerà.
GOOD NIGHT, GOOD LUCK. Tv compagna per la notte, e anche anticorpo di una società avvelenata dal sospetto, gli anni ’50 americani di McCarthy. George Clooney alla seconda regia (2005), forte di un brillante cast guidato da David Strathairn con lo stesso Clooney, Langella, Jeff Daniels e Robert Downey jr., racconta la battaglia civile di Ed Murrow che nel 1953, dagli studi della Cbs, si scagliò contro la caccia alle streghe del famoso senatore.
PRIMA PAGINA. Di giornalismo si può anche ridere, e di certo lo si fa dal 1974, anno in cui uscì questo capolavoro firmato Willy Wilder, affidato a una coppia insuperabile di commedianti, Jack Lemmon e Walter Matthau. Un copione scritto in origine per una reporter donna (The Girl Friday, 1940, di Howard Hawks con Rosalind Russell) in cui si celebra l’innegabile vittoria del giornalismo sul matrimonio del protagonista. Se non è potere questo…