Tu es libre, in scena al teatro I, è una delle provocazioni più intelligenti e coraggiose che si sarebbero potute produrre su un tema spinoso e doloroso come quello del terrorismo
Quale spazio può accogliere quella che ha tutta l’aria di essere una contraddizione?
In Tu es Libre, in scena al Teatro I, uno spazio vuoto. Lo ha lasciato Haner, ragazza di fatto e nome di uomo. Haner, andros, in greco è l’uomo, di più, l’essenza stessa del maschile, exemplum di virilità.
Haner non è greca, ma lo è il libro che ha portato con sé, prima di partire. L’Iliade, poema emblematico dell’occidente, di una guerra che si tende a tramandare come “noi contro loro”.
Le stesse frasi che risuonano oggi. Ed è fra i supposti “loro” Haner ha portato Achille, Agamennone, Ettore, e l’Andromaca di cui prende il nome. Perchè a ventidue anni Haner “se n’è andata al sorgere del sole, come fanno tutti i viaggiatori”, ma il suo viaggio l’ha portata in Siria.
E a chi è rimasto resta solo una domanda, quella che percorre tutto lo spettacolo e insieme lo trascende: perchè?
Se lo chiedono la madre, il padre, il ragazzo che l’ama, l’amica con cui andava all’università. Se lo chiede il testo e la drammaturga, la stessa Francesca Garolla che si porta in scena nei panni di se stessa, per farsi esile filo che prova a tenere legato un prima e un dopo, il noto e l’ignoto.
Da un lato, il tempo in cui Haner cresceva, in una Francia e in una famiglia dove tutto le era permesso, o – di nuovo – così sembrava. Dall’altra, l’oggi: il tempo in cui Haner è un’assenza che ha preso la sagoma dell’altro, del nemico. Di cui chi resta è chiamato a dare una giustificazione. A riportare dentro i confini della logica qualcosa che, nel sistema valoriale che si suppone condiviso da coloro che molti chiamano “noi” – quelli nati “non dalla parte giusta, ma da una parte” – è quanto di più mostruoso la stretta contemporaneità pensa di dovere affrontare.
Per costoro, Haner è una foreign fighter. Per i suoi genitori una figlia modello sparita senza ragione, per il suo ragazzo un amore che non aveva saputo capire, per la compagna di studi un’amica strana invidiata e disprezzata insieme. Ma adesso, dopo quello che è successo un istante prima della scena, c’è chi esige di sapere una volta per tutte chi è Haner.
C’è, a chiedere conto, un potere a cui non serve essere visibile per essere opprimente. Gli è sufficiente il gioco di echi e riverberi e suoni metallici che Renzo Martinelli tratteggia in uno spazio livido che diventa presto disturbante come la situazione che ospita un potere affamato di una verità rassicurante, perché “sarebbe troppo difficile per noi scoprire che la verità non serve”. Una verità, però, non è possibile. “Nessuno sa chi è davvero Haner. Non lo sa chi la conosce e non lo sa chi non la conosce. Solo Haner potrebbe dircelo. Solo lei. Ma lei non è qui”.
In questo spazio di domande che non possono avere una risposta il testo di Francesca Garolla supera un confine: quello della sfida. Frasi dense di lirismo costruiscono un’architettura celebrale in cui i piani si sovrappongono e si concatenano, rendendo persino difficile cogliere per intero la messe di suggestioni che offre.
Per provare a dipanare la matassa si può provare ad afferrarne una: quella del titolo. Che più che una domanda è un’affermazione, tanto forte da aver bisogno che la stessa autrice rompa il crescendo e sveli la finzione. Al pubblico, figlio di un presente confuso, serve sapere che si tratta di uno spettacolo, che la drammaturga ha inventato tutto. Perché per molti sarebbe insostenibile l’alternativa.
Sarebbe inconcepibile pensare che una ragazza che aveva tutto scelga un gesto come un attentato in un supermercato e trasformi il togliere la vita in un dare. “Quando qualcuno dona la sua vita per qualcosa c’è umanità”. É molto più facile, sicuro, ripeterci che Haner è una delle tante invasate traviate da reclutatori convincenti, una delle donne che scelgono il velo per una forma, ammessa o meno, di odio di sé.
Francesca Garolla e le interpretazioni intense di Liliana Benini, Maria Caggianelli,Viola Graziosi, Alberto Malanchino, Alberto Onofrietti ci suggeriscono invece qualcosa che non siamo disposti a sentire.
Se la madre affranta custodisse la sua stanza come un sacrario solo perchè è lì che c’è Haner. “Prima di tutto. L’unica Haner che conosco. E l’unica che voglio”. Se la libertà che le offre il padre fosse un simulacro, accettata purché sia accettabile dal senso comune. Se quello che un uomo chiama amore fosse un ossessiva rivendicazione di possesso? É questa la civiltà? Sono questi i paesi liberi?
È facile identificare le catene dove possiamo agilmente porle fuori di noi. Tu es Libre invece accosta due concetti esorbitanti, spaventosi ciascuno a suo modo: guerra e umanità. E li sintetizza in un modo tanto paradossale e apparentemente impensabile da aprire in un testo stilisticamente curatissimo squarci di una verità possibile tanto abnorme da abbagliare o al contrario precipitare nel buio. “Dove c’è la guerra c’è umanità”, perché sono gli uomini a farla.
E allora, in un occidente che si ubriaca della parola libertà, perché la libertà più vera, totale, assoluta, incontenibile da qualsiasi confine, non potrebbe trovarsi in quella che ripetiamo essere la sua totale negazione?
Tu es Libre è una delle provocazioni più intelligenti e coraggiose che si sarebbero potute produrre su un tema spinoso e doloroso come quello del terrorismo. A chi osserva l’intelligenza e il coraggio di non respingerla e sfidarsi ad affrontarla.
Foto di Laila Pozzo
Tu es Libre, in scena al Teatro I fino all’11 dicembre