Turchia e Iran, così il cinema racconta un salto nel futuro

In Cinema

Temi sociali, familiari, esistenziali, in tre film di registe di Ankara e dintorni, tutte passati da festival importanti, a cominciare dell’esordiente Deniz Gamze Ergüven che in “Mustang” dà un ottimo esempio di denuncia senza rinunciare al sorriso. Per tutta l’estate grazie ad Academy 2 circoleranno quattro lavori di pregio che vengono da Teheran, storie soprattutto di donne coraggiose in bilico tra tradizioni oppressive, difficoltà economiche, maschi faticosi. E non manca un intrigante mystery

cinque sorelle in rivolta tra paese e città

Un film di denuncia riuscito non può che nascere dall’esperienza personale. E anche se ciò che l’autore decide di condividere con il pubblico è solo una piccolissima parte del vissuto, già basta per scagliare pietre distruttive contro le finestre dell’ingiustizia. Forse non serviranno a demolire il palazzo, ma apriranno pericolosi spifferi da cui urlare la propria indignazione. Un esempio perfetto è Mustang, dell’esordiente regista turca Deniz Gamze Ergüven, passato alla prestigiosa Quinzaine des réalisateurs del Festival di Cannes 2015 e premiato alla Festa di Roma. E la mano femminile della cinematografia turca si è fatta apprezzare anche di recente in Motherland, brillante debutto di Senem Tuzen, passato all’ultima Settimana della Critica a Venezia, che racconta un tormentato rapporto madre-figlia e Until I Lose my Breath della giovane e talentuosa Emine Emel Balci, apprezzato alla Berlinale 2015 per il suo ritmo e l’impegno sociale.

Figlia di un diplomatico e cresciuta a cavallo tra Parigi e Ankara, Ergüven racconta in questa pellicola la storia di cinque sorelle cresciute nel nord della Turchia e segregate in casa dopo aver festeggiato insieme a dei coetanei la fine della scuola. Un divertimento casto, spensierato e gioioso, che però ha scatenato le voci dei vicini e l’estrema reazione della nonna, accusata dagli anziani del paese di aver dato alle protagoniste un’istruzione troppo permissiva. La costrizione carceraria è tanto ripugnante quanto inflessibile, capace di far scattare di rabbia anche lo spettatore più distratto.

Un ficcante trattato filmico a denuncia della condizione delle donne. Ma ciò che più riesce alla giovane cineasta è donare equilibrio a un’opera complessa, che vive anche di repentini e straordinari cambi di tono. Alle cupe e vergognose imposizioni, le ragazze reagiscono giocando e inseguendosi persino tra le mure domestiche. Alle orripilanti privazioni, che distruggerebbero la vita di un qualsiasi loro pari età occidentale, fa da contraltare la genuinità e l’estrema spensieratezza di quei volti ancora troppo giovani per scontrarsi con una vita infelice e già decisa.

Peccato che il racconto subisca sporadicamente qualche calo di ritmo, dovuto inevitabilmente a una parte centrale bloccata dagli angusti spazi domestici in cui è costretta la cinepresa. Ma poco male: bilanciano alla grande l’ottima fotografia di David Chizallet ed Ersin Gök, e le toccanti musiche composte dall’australiano Warren Ellis, una garanzia di qualità che in pochi oggi possono permettersi (da urlo la soundtrack composta con Nick Cave per L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, un film del 2007 di Andrew Dominik).

Mustang di Deniz Gamze Ergüven, con Günes Sensoy, Doga Zeynep Doguslu, Tugba Sunguroglu, Elit Iscan, Ilayda Akdogan 

QUATTRO MODI DI RACCONTARE LA PERSIA DEL 2000

Parlano molto di donne i film dell’Iran contemporaneo, che anche grazie all’Oscar 2011 di Una separazione di Ashgar Farhadi ha avuto negli ultimi anni un rilancio forte a livello internazionale, dopo la generazione storica dei Kiarostami, appena scomparso e Makhmalbaf. L’orso berlinese 2015 di Taxi Teheran di Jafar Panahi e l’interessante storia multipla al femminile Acrid di Kiarash Asadizadeh, uscita lo scorso anno, potranno convincere molti ad accogliere l’idea della Academy 2, che col titolo “Nuovo cinema Teheran” propone per tutta l’estate un poker di titoli con pedigree internazionale prodotti negli ultimi due anni in terra persiana.

Si parte dal metropolitano e molto social Un mercoledì di maggio di Vahid Jalilvand, 40enne regista teatrale e televisivo qui al suo debutto nel lungometraggio, passato e premiato lo scorso anno alla Mostra di Venezia. La vicenda, ambiziosa ed efficace, ha tre facce che ruotano intorno alla bizzarra idea di un pubblicitario un po’ filantropo che decide di “mettere in palio”, con un annuncio su un giornale, una grossa somma a chi gli dimostrerà con la sua storia di averne più di altri bisogno. La folla che si raduna davanti al suo ufficio, il giorno stabilito, lo metterà di fronte a una dolorosa e crudele scelta, chi scegliere fra i e le tanti/e aspiranti alla sua generosità, e in più una di loro si rivelerà essere una sua “ex”, maritata a un uomo molto malato. La interpreta Kiki Karimi, una delle attrici e registe oggi più mote in Iran. Un altro ritratto di fiera rappresentante di un tutt’altro che “sesso debole”, Sareh Bayat (era nel cast di Una separazione) dà il suo volto dolente e molto espressivo alla Nahid del film omonimo diretto da Ida Panahandeh, lei pure al debutto in un film dopo molti corti e lavori per la tv. Passato l’anno sorso a Cannes in Un certain Regard, racconta la quotidiana lotta di una donna divorziata e certo non riccha che deve fronteggiare l’ex marito assai ostile, il figlio adolescente scapestrato e diviso tra l’amore per lei e la sintonia col padre, incontrollabile come e più di lui, e un nuovo amore che vuole fortemente ma fa un’enorme fatica a collocare in questa sua frenetica, faticosa, ma vitale esistenza. I cupi, ma molto affascinanti panorami del Mar Caspio, dove la vicenda è ambientata, nell’Iran settentrionale, contribuiscono a segnalare il film.

Il più complicato e intrigante titolo del lotto è il mystery politico-sentimentale A Dragon Arrives di Mani Hagighi, passato in gara all’ultima Berlinale, opera di un autore maturo, già sceneggiatore di Fahradi e ottimo documentarista, che colloca la sua intricatissima storia negli anni ’60, quelli in cui operava il nonno, a sua volta famoso regista (Ebrahim Golestan). Con una coda, come si dice, “ai giorni nostri” in cui più o meno tutto si spiega grazie a vecchi nastri per registratori d’epoca e protagonisti sopravvissuti. Mescolando temi storici, come la guerra coloniale seicentesca tra portoghesi e inglesi, e più recenti accadimenti (la polizia segreta dello Scià, il cinema di quegli anni) e contaminando il tutto con spunti di fantasia, Haghighi compone un coloratissimo puzzle. Reso ancor più affascinante dal panorama incredibile della remota, desertica isola di Qeshm, nel Golfo Persico, dove all’interno di un galeone arenato da secoli si dipanano trame in bilico tra il mondo reale e i suoi conflitti politici, e quello ultraterreno del dragone del titolo, vero MacGuffin hitchcockiano capace, forse di suscitare terremoti ma di certo la fantasia degli autori del film.

Competa la rassegna il contemporaneissimo A Girl Walks Home Alone at Night (reduce dal Sundance 2014), viaggio nell’oscura Bad City, popolata da fantasmi, tossici e prostitute, dove un moderno Dracula mediorientale, figlio di una graphic-novel, si aggira minaccioso e con esiti imprevisti. Il primo vampire western iraniano porta la firma di Ana Lily Amirpour, anche lei al debutto come regista di un “lungo”, ma che fin da quando aveva 12 anni gira film horror.

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