Elizabeth Strout ci racconta le zone intime con una forza che è tutta nel suo essere morbida e delicata.
Elizabeth Strout ha un’eleganza innata: si percepisce nella sua figura sottile e aggraziata, nelle movenze delicate, nel modo di parlare. È un’eleganza piena di affabilità, di umorismo, è un eleganza tonda, calda, seguita da un risolino sempre un po’ imbarazzato: come se il fatto di ricevere domande e dare risposte fosse un privilegio che l’umiltà di una scrittrice come la Strout non riesce pienamente a riconoscersi.
Ed è proprio questa grazia a sorreggere la scrittura del suo ultimo romanzo, Tutto è possibile, a rendere l’umanità dei suoi personaggi con una disinvoltura spiazzante, a dipingere la complessità dell’animo umano con pennellate delicatissime e struggenti allo stesso tempo.
Per una volta, iniziamo col chiederci non “come” prenda inizio questa storia, ma “dove”. Nel romanzo non c’è un inizio e non c’è una fine, non c’è una trama che si srotoli sulle fila del tempo, ma è piuttosto lo spazio ad essere il filo conduttore delle storie che la Strout racconta.
Sono i campi di mais e di soia arati di fresco, è un cielo azzurro e sterminato a riempire i vuoti narrativi. La prepotenza dello spazio è uno degli elementi che fanno di questo romanzo un perfetto capolavoro della narrativa americana: e, forse, è in virtù di questa peculiarità se Elizabeth Strout e Alice Munro vengono così spesso accostate.
Siamo nel Midwest, esattamente nella regione dell’Illinois, ed è proprio sotto un cielo azzurro e vertiginoso che si dipanano le storie minute dei nostri personaggi.
Il paesaggio è vastissimo, verde e giallo d’estate, imbiancato d’inverno, ma al contempo ha un che di desolato, di triste, di troppo piatto per essere definito dolce. Sull’immensità dello sfondo non possono che vedersi figure piccole, infinitamente piccole, di un’umanità estrema, a tratti nauseabonda.
Ogni personaggio è osservato attraverso le lenti di una scrittrice che ama incondizionatamente le sue creature: non le giudica, non le condanna, ma semplicemente le racconta, come una madre parla dei proprio figli. e rispetto alle quali sospende completamente il giudizio. È questo tocco lieve che pare una carezza a farmi pensare che un libro così non poteva che essere scritto da una donna. Il processo di scrittura è straordinario e ancor più lo è la condizione di libertà della scrittrice: chi di noi non vorrebbe, fosse anche per un giorno, poter raccontare il mondo senza giudicarlo affatto?
Insieme allo spazio è Lucy Barton, protagonista del precedente romanzo della Strout, a cucire insieme le pezze del racconto in un grande e coloratissimo patchwork.
Manca un disegno complessivo per poterlo definire un affresco, non c’è alcun finalismo nel succedersi degli incontri. Semplicemente, i personaggi che hanno popolato l’infanzia di Lucy Barton tornano a vivere sulla pagina scritta per incrociarsi come casualmente ci si incrocia in una realtà piccola e modesta come Amgash, la cittadina fittizia dell’Illinois in cui Lucy Barton è nata e cresciuta.
I personaggi, incastrati in un’esistenza spesso omertosa, fatta di bugie e non detti, concimata di vergogna, segnati dai traumi del passato e in qualche modo rassegnati a vivere e rivivere le ferite del proprio vissuto sotto quel cielo vertiginoso, conoscono in questo intrecciarsi dei rari istanti di grazia, dove tutto è possibile.
L’epifania arriva quando non è attesa, semplicemente arriva, ci sorprende, ci attraversa se solo siamo in grado di accoglierla, se siamo in grado di farci turbare, di emozionarci e di lasciarci cadere in un istante di pura empatia, di pura connessione con l’altro. Solo allora, da quella sottilissima feritoia arriva una luce tenue, che si fa via via più intensa, fino a diventare un candore accecante, proprio come accade nell’omonimo racconto, dove si narra la storia di Annie Appleby e di suo padre Elgin.
A mio avviso, è una delle storie più riuscite del romanzo, intrisa di una tenerezza struggente. Elgin Appleby, ormai anziano e affetto da demenza senile, vomita in preda al delirio e con una potenza impressionante tutta la sua sofferenza, rivelando la propria omosessualità e il grande amore di una vita, Seth Potter, l’insegnante di Annie. Paradossalmente, è in seguito a questa scoperta che Annie inizia a comprendere un padre sfuggente, ombroso a tratti, ed è qui che rivive l’estasi di un lontano pomeriggio della sua infanzia, stringendo il padre in un metaforico abbraccio, riempendolo di un affetto immenso e senza macchia.
E per un istante Annie riflettè su questo: che suo fratello e sua sorella, brave persone, serie, perbene, equilibrate, non avevano mai conosciuto la passione che porta un uomo a rischiare tutto quello che ha, a mettere a repentaglio ciò che gli è più caro, semplicemente per essere vicino al bagliore accecante del sole che per quell’istante sembra capace di lasciarsi la terra alle spalle.
I momenti di grazia sono i punti luminosi in un romanzo fatto di ombre: la Strout sa raccontare le zone intime con una forza che è tutta nel suo essere morbida e delicata.
Da una penna così leggera, nasce Charlie Macauly, uno dei personaggi più affascinanti del romanzo. Reduce dalla guerra del Vietnam e affetto da sindrome post traumatica, Charlie Macauly è innamorato di una prostituta che è costretto a lasciare nel momento in cui sorge una questione di soldi. Nel momento in cui Charlie lascia Tracy, la prostituta, si accorge che il dolore di averla persa non arriva e potrebbe non arrivare mai, non perché lui non l’abbia amata, ma perché la guerra lo ha anestetizzato contro ogni dolore, fino a renderlo disumano. Alla fine, il dolore arriva e lo coglie in un momento inaspettato, in uno di quegli istanti di grazia che costellano il romanzo: Charlie si è rifugiato nel bed and breakfast di Dottie Blaine ed è lì, davanti al televisore, in compagnia di una perfetta sconosciuta, che il dolore lo sorprende con un’intensità devastante.
Elizabeth Strout racconta dei frammenti di vita che noi possiamo cogliere sotto forma di inediti fotogrammi, scattati da un punto lontano, ma con un potente obiettivo. Finiamo per sentirci degli intrusi in questi attimi così intimi e privati, al punto che una parte di noi vorrebbe fuggire via, mentre un’altra parte di noi è determinata a restare, incapace di scollarsi da tali visioni, che sconvolgono in virtù del fatto che in fondo ci appartengono. È come se tutti noi lettori non fossimo che piccoli voyeurs, che, come Linda Nicely e il marito Jay nel capitolo Crepe, mettono in stand-by la propria vita per osservare quella di qualcun altro.
Sotteso a molte delle storie narrate dalla Strout in Anything is possible e dopotutto anche al titolo del romanzo è il concetto di redemption, che in inglese sintetizza i termini italiani riscatto e redenzione. Redemption è, a mio avviso, intraducibile, perché nei personaggi che incontriamo il riscatto non è visibile soltanto a un livello sociale o economico, ma anche ad un livello molto più intimo, quasi spirituale. Esemplarmente prendiamo l’ultimo capitolo, quando alla vigilia di Natale Abel Blaine incontra un fantomatico Scrooge (ovvero l’attore che interpreta Scrooge nello spettacolo natalizio del paese) e, seguendo lo scambio di battute tra i due, abbiamo la sensazione di trovarci di fronte all’intimissimo dialogo tra un uomo e la Morte.
Accade qualcosa di straordinario nelle ultime pagine, che la parola riscatto non esaurisce neanche lontanamente: ha un sapore onirico, forse religioso. Non importa definirlo, perché nel momento in cui lo leggerete vi accorgerete che ogni cosa è esattamente al suo posto, qualcosa dentro di voi si smuoverà per dirvi che tutto è possibile: che Abel Blaine è pronto a morire, che Angelina Mumford riuscirà a perdonare sua madre, che Charlie Macauly troverà il dolore dentro di sé.
Soltanto un personaggio, il meno sospettabile, rimane incastrato nel suo passato, o meglio non vi trova pace, né conforto, né perdono.
Lucy Barton è l’emblema del riscatto senza redenzione (e non stiamo parlando in senso biblico).
Nel capitolo Sorella, vediamo Lucy ripartire da Amgash in preda ad un attacco di panico, irrisolta, avvolta da un velo leggero, ma resistente, impossibile da squarciare. Per quanto acculturata, benestante e ormai famosa, la nostra Lucy Barton non trova alcuna grazia nel suo ritorno ad Amgash, nell’incontro con i fratelli, perché a differenza degli altri personaggi non riesce a capacitarsi delle asprezze del passato, non può giustificarle o accoglierle in una prospettiva di accettazione. Lucy Barton vive uno strappo insanabile con il passato e la sua anima è irrimediabilmente ferita.
Qualcosa di lei continua a sfuggirci. Sembra imprendibile.
Forse Elizabeth Strout cerca solo di proteggere Lucy Barton dalle nostre grinfie di lettori voyeurs: e come darle torto?