Narrare al tempo di internet: immediatezza, brevità, arguzia e fluidità, i romanzi scritti su Twitter. Fra scritture collettive, esperimenti partecipativi e autori affermati come Jennifer Egan e Stephen King, la letteratura è arrivata sui social e si chiama #twitteratura.
“A me sembra un’abnorme, assurda, disagiante raccolta di status di Facebook”. Così un mio amico mi ha descritto i Quaderni di Emil Cioran, con questa definizione geniale e spiccia. Al di là dei filosofi rumeni che si riscoprono web addicted, un’assolutamente non abnorme, non assurda e non disagiante raccolta di status di Facebook, diventata poi un libro, c’è stata per davvero: nell’Ucraina sull’orlo della crisi di Crimea (2014), Oleh Shynkaranko decise di dare voce alla propria storia nel cassetto sfruttando il servizio di rete sociale di Zuckerberg, strutturando il romanzo in post da cento parole sotto forma di bollettini di guerra provenienti da un futuro post-apocalittico che i fatti dell’Euromaidan li tiene ben presente.
Ma prima di Facebook, a ben vedere, queste prove di letteratura all’insegna del breve, efficace e segmentato, c’erano già. Rovistando un po’, oltre al microscopico romanzo In vendita: scarpe per bambino, mai usate di Hemingway (disse che fu la sua miglior cosa; ma a l’Avana faceva talmente brutto da farsi dedicare due cocktail a base di Rum, il buon Ernest) e a vari casi di libri da una manciata di parole che vanno da Stan Lee a Eileen Gunn, il più intrigante sul piano aneddotico rimane quello di Stephen King. Il maestro dell’horror, stanco delle continue critiche alla sua prolissità, accettò, durante un’intervista, di scrivere un racconto da brividi che stesse in una sola riga; il risultato fu questo: “L’ultimo uomo rimasto sulla terra è chiuso in una stanza. Bussano”.
Nel multimediale presente ciò compare dietro un display retina nelle forme più diverse, il Calvino di Lezioni americane sarebbe contento di noi. Nella sinteticità molteplice profusa da new media, Social e letteratura sono andati a braccetto spesso, dai semplici esercizi di scrittura su Tumblr ai romanzi promossi su Instagram.
Restringendo il campo, la piattaforma che si è mostrata più prolifica e che si è smarcata di più dalla semplice autopubblicazione alternetiva, è stata quella di Jack Dorsey, o semplicemente: Twitter. Come servizio di social networking ha dato gli esiti letterari più interessanti se consideriamo la produzione e gli scriventi che l’hanno adoperata. Tra le ormai passate agli annali “legioni di imbecilli” di cui parlava Eco (probabilmente non a torto ,tra l’altro), c’è stata anche qualche truppa composta da case editrici e scrittori che di certo imbecilli non lo sono stati, o specie non lo sono quando si tratta di cercare nuovi market mover o di indagare nuovi canali di sperimentazione. Possiamo intendere la narrativa composta interamente su Twitter e per Twitter come fatto letterario. Un fenomeno che ha raggiunto un grado tale di maturazione che è giunto il momento di ricollocarlo da un punto di vista critico, senza buttare nel mucchio teorie di sociologia applicata o quegli scenari alla Huxley che tanto hanno dato all’immaginario distopico. Possiamo smettere di porre le giuste domande e provare a dare le giuste risposte.
Ci troviamo di fronte a un nuovo genere, con i suoi padri nobili, con le proprie particolarità, con il proprio insieme di valori, norme e consuetudini, con anche i propri detrattori (capofila d’eccezione, Jonathan Franzen) e ovviamente, inutile dirlo, le sue criticità. Un terreno fertile sia per gli stili sia per i contenuti, che copre tutti i poli della letteratura, dall’autore alla critica, dal lettore al medium. All’inizio è stato per gioco, puro divertissement, un po’ per gara un po’ per spinta promozionale degli editori e si tratta di romanzi collettivi in cui veniva lanciato un hashtag o un tweet e a seguire i vari follower/lettori/autori dovevano riprenderlo rispettando le regole prepattuite, cercando di costruire una storia finita, ricollegandosi a quanto scritto precedentemente, sfruttando tutte le possibilità narratoriali e inventive. Per certi versi, questo insieme di esperienze potrebbe essere accostabile agli espedienti combinatori dell’OuLiPo, in cui i limiti convenuti diventano essi stessi motore dell’atto autoriale.
Il primo di questi, nacque il 7 ottobre 2010 sull’iniziativa di un gruppo di studenti finlandesi partecipanti ad un progetto di marketing per i new media, i quali inventarono il primo romanzo social-collettivo: Da una realtà all’altra , la cui trama fu imbastita dallo scrittore Mikko Karppi e il cui sviluppo fu affidato nelle mani dei 140 caratteri, dando così vita ad un’opera di genere poliziesco realizzata in coworking, sottoposta ad un lavoro di editing continuo dagli ideatori che aggiornavano giorno e notte la storia, selezionando i vari tweet , sfruttando quindi l’immediatezza e la interconnettività della piattaforma di microblogging.
Non sono poi mancati anche i casi nostrani, uno su tutti il progetto #WeBook lanciato per scherzo dalla giornalista Claudia Maria Bertola sotto lo pseudonimo di @AngiolettoFree e da Tito Faraci che grazie a una serie di botta e risposta, hanno dato forma ad un romanzo giallo vero e proprio diventato anche un Ebook.
Tra il 2010 e il 2014 di queste sfide ne sono state proposte molte, ed è quantomeno interessante notare che uno strumento mediale tradizionale come il cinema sia costretto a rilegarsi sempre più ad una fruizione intimistica (complice lo streaming video) e invece la scrittura e l’elaborazione letteraria, che pure aveva avuto dei precedenti di ideazione e stesura collettiva, sia diventata di massa, allargando, sì, anche la repubblica dei lettori, ma soprattutto quella degli autori che già aveva avuto il suo slancio di democrazia con il self-publishing.
In questo contesto e cavalcando quest’onda fu poi scritta la prima vera e propria tweet fiction su idea del Premio Pulitzer 2011 Jennifer Egan che propose al New Yorker di pubblicare sul proprio account Twitter una spy story al femminile dal colore noir: The Black Box (tradotta in Italia da Minimum Fax), abbozzata su un quaderno di appunti e poi frammentata in una serie di twittate, messe online tra le 20 e le 21 nell’arco di sei mesi e apprezzata per la scrittura condensata ed efficace, che fornisce ai lettori una serie di lampi narrativi in cui si enuclea passo dopo passo l’intelaiatura della trama, ben prestandosi alla suspance e all’uso reiterato dei cliffhanger. Un altro esempio illustre è stato il Romanzo The Right Short di David Mitchell postato nel 2014 (autore inglese tornato in auge grazie anche alla trasposizione cinematografica delle sorelle Watchowski del suo precedente romanzo, Cloud Atlas) composto da 280 tweet pubblicati in sette giorni. La storia segue la parabola del romanzo di formazione ed è narrata da Nathan, ragazzino inglese che viaggia insieme alla madre pianista alla quale poi ruberà il Valium per placare gli incubi e le ansie provocate dai continui atti di bullismo a scuola, dando luogo a un susseguirsi di scene e situazioni che fanno da funambolo tra la realtà e la visione allucinata, in un climax ascendente che va dal visionario fino al thriller fosco, come se ci trovassimo in un racconto alla Edgard Allan Poe.
Mitchell si avvalse di diverse opportunità stilistiche, prendendosi diverse pause tra una twittata e l’altra; potremo dire di assistere ad un ritorno all’ottocentesco romanzo d’appendice, in cui la narrazione viene suddivisa a puntate scandite su una sequenza temporale, ma questo non dovrebbe stupirci in un momento in cui sul finzionale la serialità televisiva e non, ha uno strapotere enorme. All’interno di questi contesti è come se lo scrittore si trasformasse in una sorta di compagno di banco che ci passa continuamente bigliettini tramite i quali, noi uditorio, dobbiamo man mano ricostruire i fatti; oppure, se guardassimo il tutto esclusivamente dal punto di vista della pubblicazione, a differenza del self publish in cui un autore trasforma la propria opera in una sorta di bottiglia con messaggio gettata in mare, sperando che questa si spiaggi sugli isolotti della grande distribuzione, facendo Buzz Marketing (cioè, quell’insieme di operazioni volte ad aumentare le conversazioni circa un argomento) o facendo ricerca attiva di follower, è come se ciò che viene scritto fosse scaraventato direttamente sotto la porta di casa, come un volantino.
Mitchell intervistato dalla BCC ha ammesso di aver vissuto questa promozione tramite il social editing come una sorta di “camicia di forza testuale”, ma ha anche rivendicato certi vantaggi che Twitter offre sul piano della resa stilistica, come ad esempio il rapporto intimo che si crea tra il testo e chi legge, che a sua volta viene massimizzato dalla piccolezza dello schermo e soprattutto l’esaltazione nevrastenica che dava alla sua storia il dover trasmettere il proprio scritto sbriciolato in pezzi da 140 battute, evidenziando ancora di più la connotazione fluttuante e stralunata di The Right Short. Di fronte a questi autori di rilievo si è capito che il fenomeno era uscito dai confini della letteratura potenziale ma era già un qualcosa di più.
A chiedersi per primo se fosse nato un nuovo genere letterario fu il britannico The Guardian nel 2014, parlando per la prima volta di Twitter Novel in modo organico e composito. In realtà venne fuori che l’idea di pubblicare interi romanzi su Twitter non era nuova. Nel 2009 Matt Stweart, stanco dei continui rifiuti, riuscì ad uscire dall’anonimato pubblicando in 3700 cinguettii il suo romanzo, The French Revolution. Risultato? 1000 followers e un successo di critica che lo portò ad essere pubblicato l’anno dopo da Short Skull Press.
Un altro affascinato dal multimediale è stato l’eclettico e poliedrico regista di grandi film di successo come Erin Brockovich, Ocean’s eleven o Traffic, montatore e direttore alla fotografia, Steven Soderbergh, che decise proprio di promuovere il suo scritto d’esordio Glue su Twitter mentre il suo film per Hbo, Behind the Candelabra, era in concorso a Cannes. Glue (uno dei rari esemplari di romanzo scritto in seconda persona, il protagonista è infatti rappresentato da un generico “tu”) è un giallo in cui si avvicendano diversi personaggi nominati solo con una lettera, per non rubare appunto troppo spazio ai già limitati caratteri, che a spasso per l’ Europa sono alla ricerca di una sostanza e di un oggetto misteriosi, non meglio identificati, soffiando su una girandola di sospetti e intrighi.
In sud Africa nel gennaio 2016 tenne con il fiato sospeso Kamo, romanzo thriller cinguettato in 70 ore, in cui il mistero si addensa attorno alle complicate indagini di una ragazzina stuprata e uccisa, che ha avuto un grande successo di pubblico, tanto da mobilitare pure lo storico quotidiano di Johannesburg The Star.
Un altro caso singolare divenuto anche un caso istituzionale per le pesanti limitazioni che vigono in Cina e che merita almeno di essere menzionato, è quello del politicamente scorretto Lian Yue che sta tweettando clandestinamente un romanzo intitolato 2020 che è stato iniziato nel 2010 e che si concluderà, ovvio, nel 2020. Nonostante le sopracitate truppe eminenti del grande esercito variegato quale è la produzione letteraria e nonostante un Twitter Fiction Festival che giunge alla sua ormai quarta edizione (e curiosità, secondi agli americani come presenza ci siamo proprio noi italiani) ci sono dei negazionisti che affermano che di “twitteratura” non si può parlare, che esistono solo scrittori e lettori, che Twitter può essere considerato un non luogo per poter esperire nuove strade narratoriali, che rimangono però esperimenti fini a se stessi, o se proprio, lo si può definire come uno spazio aperto comprendente la critica e il commento (ne è un esempio felice @CasaLettori o @Twletteratura che si sono fatti promotori di iniziative che vanno dalla lettura di gruppo, al topic di dibattito o alla riscrittura creativa, come lo è stata la rielaborazione delle Fiabe Italiane di calviniana memoria a cura Marco Belpoliti per Doppiozero) o ancora, semplice promozione social nel campo librario. In soldoni: moda, che prima o poi lascerà il passo a qualcosa d’altro.
Ora, Possiamo pure cavarci gli occhi, fare i finti tonti e dire che il post mediale non sia mai arrivato o che si tratti di una semplice fase o che al limite può essere una nuova sede in cui si è trasferita tutta la filiera del libro, ma la realtà sta da una parte. Forse un giorno, ma non possiamo certamente sapere quando, Facebook, Twitter, Tumblr saranno guardati come se fossero un qualcosa di vintage come ci sembrano adesso e come non ci sembravano negli anni novanta il video registratore VHS e i distributori di tessere ricaricabili della SIP. Ma per adesso ci sono e ne siamo sicuramente infiltrati, basta salire su un bus o una metro o entrare in un bar e controllare quanti non hanno in mano uno smartphone e trarre le conseguenti conclusioni.
Che ci sia, anche all’interno dell’oceano di cristalli liquidi in cui a nostro malgrado galleggiamo, un segmento che è prettamente storytelling, autorialità e letterarietà a tutti i livelli di tutto l’indotto lo possiamo dare per assodato. Ci siamo dentro in pieno allo stato attuale delle cose e, come la realtà ci dimostra, la scrittura non è stata uccisa dal maggiordomo blogging, anche se, possiamo dirlo, non vive un suo momento apicale come i dati sulla crisi del settore tradizionalmente inteso ci ricordano. Come non si può minimizzare su questo non si può neanche vedere nella produzione social il salvagente, e uno come Chomsky che di certo di linguaggio e comunicazione se ne intende, non ha mancato nel muovere i propri dubbi e le proprie perplessità circa il mezzo, criticandone i contenuti per superficialità ed una falsa premessa di democraticità.
Ma siamo costretti a muoverci in un panorama che, volenti o nolenti, ci disabitua sempre più alla lettura come atto continuativo e intimo e ciò aumenta lo scollamento tra lettori potenziali e industria editoriale. Non siamo nelle condizioni di poter dire no, di poter sputare su un piatto che fa sia da luogo di discussione in grado di ricreare connessione con il materiale narrativo e che, allo stesso tempo, prende i connotati di un vero e proprio laboratorio creativo capace di costringere chi enuncia ad avere caratteristiche che non tutti gli autori sempre hanno: efficacia, sintesi, ingegno (con tutti i limiti del caso, certo, primo su tutti la mancanza di memoria che è data dall’istantaneità connatura al social dei cinguetti).
E parlandoci chiaro, non è facile tenere contemporaneamente il senso della struttura e concentrare tutta la propria creatività cercando di essere costantemente attrattivi in questo spazio così compresso; c’è anche da dire, poi, che non è il massimo della fruibilità leggere un romanzo a singhiozzi da 140, ad essere totalmente onesti. Quando tuttavia la testualità e l’arte del raccontare mostra di essere viva è al di là dell’ottimo o del pessimo, è sempre un bene come ci dice la storia di secoli della letteratura e non si può derubricare a triviale o a privo di materialità letteraria un qualcosa solo perché compare su un Iphone.
I Twitter Novel esistono eccome, rimescolano cose già viste (la tendenza allo spannung e il carattere seriale, che vanno da sempre d’accordo) e hanno stilemi ben precisi e influenzati dal medium di cui si avvalgono, che nonostante gli ostacoli che pone, riesce a concentrare in diversi casi qualità e bellezza. Stimolano sia chi scrive sia chi legge. Non rappresentano certo tutto l’universo finzionale ma di sicuro sono nella trending topic.