Ucraina, gli orrori della guerra e della vita “civile”

In Cinema

Con tragica premonizione sulla tragedia di questi giorni, Valentyn Vasyanovych racconta in “Reflection” gli orrori della guerra del Donbass (2014) tra esercito regolare e indipendentisti filo-russi. Il regista ucraino di “Atlantis”, passato alla Mostra di Venezia come questo film, affronta le violenze belliche e le ricadute complesse delle esperienze dei protagonisti dopo il “ritorno a casa”. Tra famiglie in crisi, coscienze tormentate e una società già pronta al più sanguinoso dei conflitti interni

Non so se Valentyn Vasyanovych, regista ucraino vincitore nel 2019 della sezione Orizzonti alla Mostra di Venezia con il già tragicamente premonitore Atlantis, ha immaginato, probabilmente temuto, mentre girava lo scorso anno il suo film successivo Reflection, uscito ora in Italia, la tragedia che si sarebbe abbattuta sulla sua nazione e il suo popolo solo pochi mesi dopo. Certo devono essergli bastati gli scontri, dal 2014 in poi, nel Donbass tra esercito nazionale e indipendentisti filo-russi, luogo e periodo storico in cui è ambientato questo suo ultimo film, per riuscire a raccontare la violenza, la crudeltà, la spietatezza che in questi giorni si sono viste sciaguratamente di nuovo infuriare, e non in formato fiction, nelle città bombardate e rase al suolo dall’esercito di Vladimir Putin. Con le molte migliaia di civili uccisi e feriti e i dieci milioni e oltre di profughi interni ed esterni che cercano rifugi e sopravvivenza.

In Reflection, il chirurgo civile Serhiy (Roman Lutskiy), partito per il fronte non per diventare un eroe ma per aiutare a salvare vite umane – è il suo modo di essere utile al suo paese – vene catturato dalle forze filo-russe e mentre è prigioniero dalle parti di Donetsk assiste a una serie ci spaventose scene di umiliazione, violenza e indifferenza verso la vita umana, orchestrate da un glaciale comandante della Fsb sul terreno di guerra (Stanislav Aseyev). Davanti a lui muore, fra gli altri, Andrij (Andrij Rymaruk, già protagonista di Atlantis), l’uomo che nella vita “civile” ha preso il suo posto nel cuore della moglie, da cui è separato: e lui contribuisce, con un gesto di pietas, a mettere fine delle sue sofferenze. Rilasciato dopo aver dovuto rendere una falsa confessione, che certamente peserà, insieme ad altri episodi di forzata compromissione, come un macigno sulla sua coscienza, Serhiy, torna alla sua casa in città, per ricostruire una decente quotidianità e soprattutto i rapporti con la figlia (Nika Myslytska) e l’ex moglie (Nadiya Levchenko). Ma sarà anche questo un percorso durissimo, incerto e traumatico.

L’orrore e la violenza disumana della guerra sono ovviamente i temi centrali del film, che ha tratto linfa vitale dalla consulenza di Stanislav Aseev, giornalista ucraino corrispondente per Radio Liberty a Donetsk, che ha trascorso due anni e mezzo in una prigione chiamata “Isolation”, e dalla presenza nel cast di attori non professionisti e con reali esperienze belliche in prima persona. Questi temi sono però poi declinati nel racconto coinvolgendo i lati personali, privati dei personaggi. Che nel tono cromaticamente (e non solo) grigio e rosso sangue della vicenda si muovono costantemente tra i rimandi collettivi e quei individuali delle vicende che stanno, con dolore, attraversando. E non mancano risvolti quasi surreali, dalla recita dai ragazzini che apre il film, in cui si affrontano, armi giocattolo in pugno, quasi a rispecchiare la guerra vera in corso a poca distanza da loro, o il gioco psico-teatrale che conclude la pellicola, in cui i personaggi principali, guardando lo spettatore, devono indovinare dal rumore dei passi chi sta passando alle loro spalle: parenti, amici che conoscono bene. Un training che suona anche questo metaforico, e soprattutto se riferito a Serhij, della nuova difficoltà di riconoscere chi ci sta più vicino, ma che forse è così cambiato da renderlo poco identificabile.

Vasyanovych della realtà bellica mostra l’impronta lasciata nei cuori. Il male lo mette in scena, e ci costringe a guardarlo, ma come riflesso, e gli schermi che utilizza (quello cinematografico, uno specchietto retrovisore, un vetro) servono forse un po’ a proteggere, e proteggersi da tutto questo. Quasi una forma di sopravvivenza. Del resto, la guerra per definizione non si può capire, si può tutt’al più rappresentare e le sue atrocità in un film, documentari a parte, finiscono sempre per essere in qualche modo mediate, “raccontate”, non veramente mostrate. Vasyanovych, che in Ucraina come tanti connazionali è rimasto anche in questi giorni, si è formato alla scuola del grande Andrzej Wajda. Qui è al suo quinto film (Riven čornoho, 2017, ha rappresentato l’Ucraina all’Oscar al miglior film straniero) e mostra di padroneggiare con grande sicurezza eventi e sentimenti, sfumature e mostruosità. Sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore oltre che regista, mostra di amare le immagini cui viene negato il movimento, in favore di un taglio statico ma molto efficace, e una fotografia fredda, espressiva, capace di coinvolgerci in prima persona.

Certamente non risparmia al pubblico più di un particolare forte, fisico e psicologico, ma va riconosciuto che alla luce di quanto si vede in questi giorni in qualsiasi tg, in diretta dalla guerra, non è giusto accusarlo di sensazionalismo cinematografico come ha fatto più di un critico a settembre 2021, quando il film è passato alla Mostra di Venezia. Si è parlato di “spettatore come preso in trappola dalla forza delle immagini e dalla crudeltà delle situazioni, che si aggrappa all’altalenante voglia di rinascita del protagonista”, o di rischio di “estetizzazione, iperformalismo, immagine cristallizzata, costruita per mediare un conflitto troppo complesso e inaccettabile da essere avvicinato”, e questo pur riconoscendo le sue qualità visive (“la fissità della macchina da presa che non si muove all’interno della stessa lunga inquadratura e la sorprendente libertà con cui le sequenze si succedono le une con le altre, spiazzano ogni possibile previsione”).

Parlando del suo lavoro e degli spettatori che cerca, e non soltanto con questo Reflection, il regista ucraino ha detto che si rivolge solo a un tipo di pubblico, quello pensante: «Un pubblico che non ha paura di sollevare domande dure su traumi pesanti, né di cercare risposte». Quelle che anche la guerra in corso solleva.

Reflection, di Valentyn Vasyanovych, con Roman Lutskiy, Stanislav Aseyev, Andrij Rymaruk, Nika Myslytska, Nadiya Levchenko

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