Pastori nomadi e branchi di animali: stesse leggi nel rispetto della natura, una convivenza accettabile. Il film etnografico di un regista quasi ecomilitante
I film etnografici hanno in Italia la stessa fortuna dei Verdi: nessuna. Eppure Jean-Jacques Annaud è un signor regista, che ha il senso del cinema. Fa sgranare gli occhi, come quando ammiri un panorama dalla cima di una scogliera. Cattura lo spettatore, lo conduce per mano e lo porta in luoghi stupefacenti, sulle cime dell’Himalaya o tra le rovine di Stalingrado non ha importanza. Ti prende. In L’ultimo lupo ci guida nella steppa della Mongolia, per capire il precario equilibrio che si è instaurato tra pastori nomadi e branchi di lupi.
Come in altri titoli del suo filone ambientalista, Annaud ci narra una vicenda articolata e spigolosa con la semplicità della favola, e quella sostanziale linearità che si trova nelle sue storie. Non vuole impartire alcun insegnamento morale. Si limita a raccontare di una comunità, quella dei lupi appunto, governata da leggi molto simili a quelle della tribù di allevatori. Vivono ambedue seguendo il ritmo inesorabile delle stagioni, e lottando sempre per la sopravvivenza ma senza per questo prevaricare sulle altre specie viventi.
Non c’è traccia qui del clichè un po’ frusto del giovane cittadino costretto a battersi per difendere l’ecosistema della campagna mongola. Tuttavia ha l’aria di pensare che, prima di lui, sulla simbiosi tra uomo e animale, tema su cui si sofferma moltissimo, non ci sia già stata quella ricca tradizione, anche cinematografica, che va da Mowgli in poi.
A un certo punto della notte, però, quando si accendono gli occhi smeraldo dei lupi che osservano gli umani, ti viene da pensare alle fatiche abbastanza inutili dei truccatori di vampiri di Twilight. A parte questi piccoli déjà vu, il viaggio nella desolata Mongolia, non priva di paesaggi affascinanti, non perde comunque quel sapore da reportage tipico dei documentari etnografici. E se è innegabile che serpeggi un certo buonismo di fondo, per esempio nel glissare sull’autoritarismo del regime cinese, dobbiamo riconoscere al regista francese l’abilità nel rappresentare il regno animale. E il merito di saper narrare il legame dei pastori erranti con la terra, e le dinamiche sociali che vi regnano.
Come già aveva fatto in Due fratelli, in questo viaggio Annaud ritorna sul legame forte che si crea tra l’uomo e l’animale: un rapporto affettivo, una complicità che trascende le parole. Perché spesso gli uomini sono portati, per la loro intima natura, a evadere dalla civiltà, da una realtà sempre più tecnologizzata, per cercare i legami puri che si creano tra gli esseri viventi. C’è chi compra una casa al mare, adotta un cucciolo, o più modestamente si dedica al giardinaggio o si sofferma davanti a un tramonto. In modi diversi, cerchiamo tutti un contatto con Madre Natura.
L’ultimo lupo, di Jean-Jacques Annaud