Umberto Eco. Due giorni di racconti

In Letteratura

Come capitoli di un unico racconto, noi della redazione di Cultweek abbiamo pensato di ri-legare i testi che abbiamo letto in questi giorni, un Diario Minimo (Eco ci perdonerà) della morte di uno dei più grandi intellettuali italiani.

Di Umberto Eco si può scrivere tanto, e di tutto. E così è stato a partire da sabato mattina, quando la notizia della sua morte, e le conseguenze emotive e culturali di quella morte, hanno prodotto un’ infinità di testi. Analisi, articoli formato “coccodrillo”, interviste ripescate, ricordi, testimonianze, frammenti dei suoi interventi più efficaci.

Come capitoli di un unico racconto, noi della redazione di Cultweek abbiamo pensato di ri-legare i testi che abbiamo letto in questi giorni, un Diario Minimo (Eco ci perdonerà) della morte di uno dei più grandi intellettuali italiani.

Umberto Eco e la morte

Sulla rivista Micromega è stata ripubblicata una sua “Bustina di Minerva” apparsa sull’Espresso nel 1997 dal titolo: “Come prepararsi serenamente alla morte. Sommesse istruzioni a un eventuale discepolo”.

Riportiamo un breve estratto, per il testo integrale cliccare qui

“(…)Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: “Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?” Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni (…)” risponde Eco provocando lo smarrimento del discepolo, che continua a interrogare il Maestro su quella strampalata teoria. Eco prosegue elencando tutte le declinazioni possibili dell’essere coglioni, incarnate dagli imprenditori, dai politici, dai giovani che ballano in discoteca, per poi concludere: “Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?” Il discepolo incassa la risposta e continua: Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?” “(…) Non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione (…) Sino alla fine dovrai resistere a questa insostenibile rivelazione (…) Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perchè vale la pena (anzi, è splendido) morire. Critone mi ha allora detto: “Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione”. “Vedi”, gli ho detto, “sei già sulla buona strada.”

Come si fa il necrologio di Eco?

È la domanda che si pone Christian Raimo su Minimaetmoralia: Essere orfani di Eco vuol dire anche questo: rendersi conto che in un qualche modo siamo stati non solo formati dalla sua intelligenza, ma che siamo stati e siamo ancora parlati da lui. Molte delle categorie che usiamo (vedi: apocalittici e integrati)dei concetti che ci sono familiari (lo stesso termine fenomenologia è stato da lui sdoganato, a partire dal famoso saggio su Mike Bongiorno), e anche delle abitudini che abbiamo nell’approcciarci a un testo come lettori o come scrittori (che poi, grazie a lui, abbiamo capito sono due cose molto simili) sono state definite dalla sua capacità d’investigare quel mondo in cui viviamo, che altro non è che, lo ammetterà ormai chiunque abbia uno smartphone in mano, una foresta di segni.

Ricordi personali

“Se ha scritto un romanzo, è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”. Con questo aforisma Gianfranco Marrone su doppiozero inizia il suo ricordo di Umberto Eco.

E di ricordi è pieno il web.

Sempre su doppiozero Giuliano Scabia racconta il loro primo incontro. “ Umberto aveva vent’anni, faceva il secondo anno di filosofia a Torino, lavorava con Pareyson. Al Falzerego (era forse il 1952), sotto il Sass de Stria roccioso e nevato, ne facemmo di tutti i colori, con Gianni Vattimo sedicenne, e Francesco Scotti, e Toni Negri, De Poli di Treviso e tanti e tanti, veramente magnifici e aspiranti santi. Teatro, lezioni d’ogni tipo, dialoghi, musiche, canti, meditazioni, messe, comunioni, purificazioni. Credo che tutti dopo siano diventati più o meno miscredenti, magari comunisti, pensatori deboli, potoppisti, ministri. Di Umberto ricordo con ammirazione e sbalordimento la lezione perfetta che ci fece sul libero arbitrio partendo dal canto di Dante e polemizzando con Croce. Io l’ho sentito già in quel ritiro maestro – e non ho più avuto dubbi che lo fosse”.

Stefano Bartezzaghi su Repubblica, ricorda, tra le altre cose, una riflessione di Eco sul proprio lavoro: “Se ci fai caso, mi disse, tutti i miei romanzi sono come un Bildungsroman: c’è un giovane che apprende da un legame formativo con un anziano. È la ragione per cui ho fatto il professore e resto in contatto affettuosissimo con tutti i miei studenti».

Gianni Vattimo intervistato su l’Huffington Post: “Per volontà di Guala, (amministratore delegato Rai) dovevamo frequentare un corso per telecronisti, presentatori e funzionari: ci chiamavano “i corsari”, e stavamo sempre insieme. Condividevamo lo stesso appartamento a Milano, in piazza sei Febbraio, è stato un periodo davvero bello, è stato come aver fatto il servizio militare con regole e disciplina, ma anche con tanta, tantissima goliardia. Quando non mi portavano a Santa Tecla, un locale perverso, dove si suonava il jazz ma principalmente era un postaccio dove si incontravano le ragazze, si stava in casa e Umberto, sempre con quella pipa in mano, mi parlava di filosofia medievale perché io stavo preparando un esame sul tema.

Fabio Mussi su Il Manifesto. “E l’infame sorrise”. È Franti, il cattivo di “Cuore”. Tra le figure della scuola lacrimosa, pia e bigotta del De Amicis a Umberto Eco piaceva Franti. Ha scritto un “Elogio di Franti”. Perché? Perché rideva. Eco sapeva ridere, Eco rideva. Se volessimo usare il suo fondamentale “Trattato di semiotica generale”, e dare una “interpretazione” del “segno” di Eco, eccola: il riso”.
E altrettanti sono i ritratti, primo fra tutti quello di Philippe-Jean Catinchi per Le Monde e uscito in italiano su Internazionale: “La curiosità e il campo d’indagine d’Umberto Eco conoscono pochi limiti, ma la costante della sua analisi rimane la volontà di “vedere del senso laddove saremmo tentati di vedere solamente dei fatti”. È in quest’ottica che ha cercato di elaborare una semiotica generale, spiegata, tra gli altri testi, in La struttura assente (1968), Il segno (1973) e quindi nel suo Trattato di semiotica generale (1975). Eco contribuisce così allo sviluppo di un’estetica dell’interpretazione”.

Dell’Eco narratore si parla su Gli Stati Generali. Sulla stessa testata si parla anche de Il nome della Rosa “È un romanzo artificiale: si vedono, anzi si intravvedono, le “schede” degli appunti: la medievistica fortemente praticata e amata (in particolare ci sembrò sottinteso, in qualche punto, il libro di H.Grundmann, Movimenti religiosi nel medioevo, Il Mulino 1980 che ci capitò di leggere in quegli anni, quasi in contemporanea); i dibattiti recenti (della fine degli anni ’70 cioè) sulla “crisi della ragione” e sui paradigmi indiziari; il richiamo implicito all’abduzione di Peirce (che si affianca ai tradizionali procedimenti logici dell’ induzione e della deduzione); l’accenno esplicito a Jorge Luis Borges e alla sua Biblioteca di Babele, che era nell’aria in quella fine di decennio. Insomma un romanzo iperculto, fictus, in cui la componente ludica e combinatoria prevale su qualsiasi intenzione seria, su qualsiasi disvelamento di rovello interiore o di comunicazione di proprie “idee sul mondo” se non nelle forme leggere, e per Eco molto “sapute”, del genere romanzesco che ambisce al best seller di qualità (secondo la formula di Giancarlo Ferretti)”.

Sempre su Nazione Indiana si può leggere in italiano un’intervista rilasciata a El Paìs nel 2010 e l’L’elogio del Franti, tratto da Diario Minimo.

Su Lifegate 10 idee poco note di Eco.

Ma forse il modo migliore per ricordare Umberto Eco è proprio attraverso le sue parole. Un’inedita intervista fatta da Andrea Cortellessa è uscita su Alfabeta2  e, su Contropiano, è pubblicato il suo intervento sul manifesto di Marx e Engels.

 

Anche sulla stampa estera Umberto Eco è stato ricordato ampiamente. Fra i vari articoli apparsi, dal New York Times al The Guardian, molto interessante è il ricordo di Stephen Moss al quale Eco confessa: “I was always defined as too erudite and philosophical, too difficult. Then I wrote a novel that is not erudite at all, that is written in plain language, The Mysterious Flame of Queen Loana, and among my novels it is the one that has sold the least. So probably I am writing for masochists. It’s only publishers and some journalists who believe that people want simple things. People are tired of simple things. They want to be challenged”

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