“Un’altra vita – Mug” di Malgorzata Szumowska, Gran Premio della Giuria all’ultima Berlinale, è il racconto di un fatto vero e al tempo stesso una metafora della Polonia d’oggi: ferito al volto dopo la caduta da un’imponente statua del Cristo Re in costruzione, il protagonista, sottoposto a un trapianto, diventa irriconoscibile e inviso a sé e agli altri. Un “brutto muso” ma anche un miracolo chirurgico. Un film ben recitato, diretto con potenza, che si concede più di una interessante licenza sperimentale
Un’altra vita – Mug (titolo originale: Twarz) di Malgorzata Szumowska, premiato alla 68esima Berlinale con il Gran Premio della Giuria, è un film che sorprende ed emoziona, strano e coinvolgente. Un esempio di cinema inflessibile, che irrompe sullo schermo con tutta la sua crudezza e mostra, con rigore e asprezza, il disagio, la povertà, la frustrazione della vita quotidiana nella Polonia dei giorni nostri, facendo a meno di grandi effetti retorici. Ispirato in parte alla realizzazione della gigantesca statua di Cristo Re a Swiebodzin, nella parte occidentale del paese, alta oltre 50 metri, il film prende spunto da un vero fatto di cronaca: a causa di un incidente sul lavoro, un giovane ragazzo rimane sfregiato e un’equipe di chirurghi polacchi interviene d’urgenza realizzando il primo trapianto facciale.
Prima di cambiare vita, Jecek (Mateusz Kosciukiewicz) è un operaio edile che vive in una piccola città situata al confine tra Polonia e Germania. Accanito metallaro dai capelli lunghi e trasandati, vive ancora a casa con la sua famiglia allargata e infastidisce tutti con vaghi progetti di trasferirsi a Londra. È innamorato di Dagmara (Malgorzata Gorol), e i due stanno per sposarsi. Impegnato nella costruzione del Gesù gigante, mentre è in piedi sul collo della statua inciampa e cade di faccia lungo l’enorme tronco cavo di cemento. Le ferite riportate sono così gravi che per sopravvivere ha bisogno di un trapianto facciale. L’operazione si rivela un successo, ma Jacek è diventato irriconoscibile anche a se stesso. Come Frankeinstein, o Elephant Man, Deturpato, sfregiato, è oggetto di dure reazioni di rifiuto: i bambini si divertono a chiamarlo Mug (“brutto muso”), la sua ragazza lo abbandona e la madre non “rivede” nei suoi occhi il figlio: a volte ha addirittura l’impressione che sia posseduto dal diavolo. Mentre gli abitanti del villaggio allontanano il protagonista per il suo aspetto, noi, seduti in sala, siamo indotti a fare lo stesso con loro: tendiamo a giudicarli in base alle loro apparizioni abbozzate, e ci sembrano grezzi, sporchi, a volte anche malfatti.
Come accade ai personaggi, anche la visione è distorta, deformata: l’occhio, nella sua indagine scopica, è guidato attraverso un uso, anzi un abuso del fuoco/fuori-fuoco. La regista ha deciso di utilizzare uno strano obiettivo, e il film è stato girato con macchine da presa vecchio stile, dotate di una profondità di campo molto stretta. Szumowska sfrutta questo dispositivo fino a raggiungere un grado di distrazione quasi estraniante, forzando la visione con una certa violenza. Così vediamo solo una parte di quello che accade, la faccia che ci vuole mostrare la regista, anche se a volte sarebbe bello poter decidere quale porzione dello schermo guardare. Questa scelta stilistica restituisce un’immagine alterata della realtà: perché quello che stiamo vedendo non è un documentario, ma una riflessione, una favola, una fantasia dell’autrice.
Un’altra vita – Mug non è necessariamente un “bel” film, ma è molto particolare. Ben recitato, diretto con potenza, ha una narrazione che sorprende col suo mix di realismo e commedia fantasy. La prima scena è una bizzarra svendita all’interno di un ipermercato, in cui i clienti devono spogliarsi fino alla biancheria intima prima di entrare e poter acquistare. Una sequenza caotica e surreale di immagini slow-motion mostra uomini e donne, nelle loro reali e disarmoniche fattezze corporali, che si azzuffano disordinatamente per un mucchio di beni di lusso in promozione. Un incipit che restituisce una visione surreale del consumismo e dell’avidità: corpi nudi spalmati su televisori a schermo piatto, ventri flaccidi usati come scudi per difendere elettrodomestici di ogni genere. Senza vergogna, senza rispetto né decenza: la perfezione, la qualità della tecnologia sono in disaccordo con l’imperfezione e il basso profilo degli organismi umani mostrati.
Szumowska gioca molto sulle incongruenze e i paradossi: gli accordi duri e sgrammaticati della musica metal accompagnano le immagini del protagonista alla guida di un’auto traballante, precaria al punto che il tettuccio sembra possa staccarsi da un momento all’altro. L’improvvisa celebrità di Jacek genera ulteriore rifiuto, repulsione da parte degli abitanti della comunità, ma anche attrazione e interesse da parte di un’azienda che lo sceglie come testimonial per pubblicizzare una miracolosa lozione che leviga la pelle e rimuove le cicatrici. Infine la costruzione di quell’enorme statua che raffigurando Gesù vuol rivaleggiare con la famosa attrazione di Rio de Janeiro (di cui è più alta, nella realtà, di 6.5 metri) è espressione e simbolo di una vera ossessione del popolo polacco, dimostrare che sono loro i più potenti, i più forti, i più vicini alla religione. Basti osservare il comportamento del sacerdote locale e dei parrocchiani nei confronti di Jacek: sarebbero più che sufficienti per far girare, con disgusto, la testa al Messia.
La regista ci offre un’opera aperta e umana, che racconta i pensieri e i sentimenti di una comunità concentrando la narrazione più sugli altri personaggi che sul protagonista e la sua sofferenza. La storia funziona come una polifonia, la cui voce principale è la più silenziosa. Jacek è una vittima, un martire, ma non si lamenta del suo destino neanche per un attimo, sopportando la sofferenza con modestia, dignità e integrità. Il suo sguardo sagace e al tempo stesso tenero riesce solo alla fine a vedere la reale natura di coloro che lo circondano. Sono loro i veri mostri, i personaggi che gravitano attorno a lui, maschere vuote, falsi, opportunisti, frutto di una società in cui le forze combinate di consumismo, cattolicesimo bigotto e campanilismo hanno terreno fertile: e lui avrà finalmente il dono di aprire gli occhi solo attraverso la sua infelice esperienza.
Nonostante il turbamento, l’angoscia, il deturpamento del protagonista, Szumowska, che continua a lottare insieme a lui, come Jacek non giudica: si limita a osservare, subisce ma non si ribella, e raggiunge un alto grado di partecipazione, una profonda umanità, un’assoluta onestà di sguardo. Nulla è certo dall’inizio, il significato di ogni quadro e del film stesso emergono gradualmente. Spesso il sapere, lo sguardo dello spettatore coincidono con quelli di Jacek: il pubblico ride, soffre, sdrammatizza, sopravvive con lui. E l’inquadratura finale, il primo piano sul volto deturpato dell’uomo, è un ricordo, amaramente comico, della storia del protagonista. Ma anche una domanda: Jacek guarda davanti a sé senza la certezza di poter vedere, e si rivolge a un fuori campo di cui non saranno mai mostrati i contorni, ma solo il vuoto, uno spazio nero, un punto di sospensione. L’ altra vita di Jacek non la vediamo e i titoli di coda si alternano su uno sfondo nero adesso muto, privo di colonna sonora, lasciando finalmente lo spettatore libero di scegliere dove vuol guardare, e poi immaginare senza costrizioni né limitazioni l’epilogo di questo drammatico conflitto interiore. Sarà lui stavolta a metterci la faccia.
Un’altra vita – Mug di Malgorzata Szumowska con Mateusz Kosciukiewicz, Malgorzata Gorol, Agnieszka Podsiadlik, Roman Gancarczyk, Anna Tomaszewska.