Molte domande suscita il film di Claudio Casazza ‘Un altro me’ girato tra i sex offenders del carcere di Bollate che aderiscono al programma rieducativo dell’équipe guidata dal criminologo Paolo Giulini. Domande intorno al carcere e alla pena e alla violenza maschile contro le donne, a come se ne esce, questioni enormi e difficili
Conosco il carcere di Bollate per avere lavorato, qualche anno fa, nella redazione di Carte Bollate, uno dei giornali realizzati dalle detenute e dai detenuti. Conosco, e ne ho diverse volte scritto, il lavoro che Paolo Giulini conduce da tempo, dentro e fuori da quel carcere, con i sex offenders, le persone cioè che si sono rese responsabili di reati sessuali.
Premessa d’obbligo per dichiarare che ho guardato da un punto di vista ‘informato sui fatti’ – si direbbe in linguaggio giudiziario – Un altro me, il documentario che Claudio Casazza ha girato a Bollate, filmando, per oltre un anno, il lavoro dell’équipe di Giulini – criminologi, psicologi, un’art terapeuta, educatori – con un gruppo di detenuti condannati per reati sessuali e reclusi in uno dei reparti di quel carcere.
Nonostante questo, nonostante ciò che conosco del carcere, del lavoro del team di Giulini e della questione della violenza maschile contro le donne, ne sono stata assai spiazzata. Ne sono uscita – dalla visione, dico – con un banalissimo, ma martellante pensiero sulla difficoltà e complessità di avere opinioni nette e univoche e ‘ricette’ pronte sui due corni della questione: da un lato il carcere e più in generale la questione della pena (sensazione che mi ha costantemente accompagnata anche ogni venerdì pomeriggio passato a Bollate) e, dall’altro, la violenza maschile sulle donne, di cui – occorre ricordarlo – quella sessuale è una delle molte, possibili declinazioni.
Mi è sembrato dunque centrato l’obiettivo del regista, la necessaria scelta della posizione dalla quale riprendere e restituire ciò che si compie tra le mura di Bollate, ovvero il trattamento dei sex offenders che ha per scopo – cosa assai utile alla collettività – la riduzione della recidiva del reato, ovvero la traduzione del principio costituzionale, così tanto ignorato se non contraddetto dal nostro sistema carcerario, di una pena che riabiliti chi la subisce. «Volevo riuscire a mantenere un terreno equidistante tra gli autori dei reati e l’istituzione che li cura, ponendomi virtualmente al centro tra gli uni e gli altri, e rendere il film un territorio aperto in cui affrontare la discussione portando i propri dubbi e le proprie certezze», ha spiegato Casazza a proposito del punto di vista dal quale ha affrontato un lavoro complesso che è arrivato ben 200 ore di girato e che ha dunque richiesto un montaggio molto impegnativo.
Da queste parti, molti dubbi, pochissime certezze se non quella, guardando il film (in questi giorni è al Beltrade) del lavoro enorme che tocca a uomini e donne ‘di buona volontà’: sia a coloro che sono interessati – e molti di più ce ne vorrebbero – a ripensare il nostro sistema penale e il ruolo della pena detentiva, sia – e dovremmo essere tutti – a coloro che vogliono stabilire un terreno di relazione tra i sessi aperto, consapevole, non violento, seppur non scevro dalla possibilità del dolore e dall’errore.
Il film di Casazza documenta sostanzialmente tre cose, come fossero tre movimenti: le sedute collettive dell’équipe con alcuni dei detenuti condannati per reati sessuali (Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino e Enrique, volutamente tenuti sempre fuori fuoco) che liberamente decidono di aderire al progetto trattamentale, le valutazioni dell’équipe sia sull’andamento del lavoro sia sul modo di ciascuno di stare dentro il percorso, infine il carcere come luogo fisico di sbarre e cemento. Bollate, come si sa, è uno dei migliori in Italia tanto da essere additato a ‘modello’, sia come struttura e spazi che sono decentemente tenuti, sia perché la gran parte dei detenuti è ‘aperta’, ovvero di giorno non è reclusa in cella e può partecipare al numero consistente di attività (lavoro incluso, seppur con non poche difficoltà) che Bollate, che può contare su una quantità imponente di volontari, ha messo in campo.
Durante questi tre movimenti accadono molte cose: passare dal titolo di reato o dal concetto astratto di violenza maschile contro le donne alla storia individuale – chi ha fatto cosa, come e a chi, cosa passava per la sua testa allora e ora nel tempo della galera, come rielabora l’accaduto e la sanzione ricevuta, come pensa al futuro fuori dal carcere – comporta una quantità enorme di passaggi e di inciampi. Ci sono gli alibi e le minimizzazioni, c’è che ‘ lei era una troietta da discoteca che aveva già denunciato altri, che provoca sempre e non paga mai pegno’, ci sono famiglie e madri che ti dicono che alla fine non è colpa tua e che avevi bevuto troppo, c’è la dimensione del carcere in cui è difficile pensarsi come soggetti responsabili e non come ‘vittime del sistema’, ma che, pure, in alcune delle riflessioni che i detenuti portano nelle sedute, sembra poter essere anche un tempo a parte, una cesura utile dalla vita di prima, pur nella grande afflittività che neanche Bollate riesce a mascherare.
Altre cose, relative al ruolo terapeutico, avvengono durante le riunioni di équipe. Altre ancora rimandano alla costrizione, seppur il regista abbia dichiarato di aver voluto guardarsi dal realizzare un film ‘carcerario’: le vasche di cemento spoglio entro le quali si consumano l’ora d’aria e le partite di pallavolo, i muri e i cancelli dei reparti, la chiusura a sera delle celle. Come spesso accade quando si tratta di carcere, in chi guarda scatta il meccanismo ambivalente che, da un lato, vede nel detenuto, soprattutto per reati così devastanti per le vittime, uno ‘che se l’è cercata’ (e che dunque in una certa misura sta laddove è giusto che stia) e dall’altra empatizza con la sua condizione e con il suo bisogno di libertà.
Restano, a visione conclusa, molte domande: se è evidente che, senza un lavoro su di sé, i sex offenders rischiano la reiterazione di quei comportamenti (e talvolta, nella descrizioni dei fatti, aleggia un certo compiacimento), ci si chiede in che misura è scelta libera quella di chi aderisce ad un programma terapeutico che ha comunque a che fare con un meccanismo premiale per ottenere permessi e altre misure meno afflittive del carcere. Ancora: l’”ingombro’ del carcere – ovvero la costante tensione verso l’uscita – può lasciare spazio ad un’effettiva e autentica rielaborazione del proprio vissuto? In che misura la relazione terapeutica è libera essa stessa, anche dalla parte degli operatori, di dispiegarsi all’interno di una struttura detentiva? La domanda delle domande poi: aldilà del reato, è troppo tardi per questi uomini, il cui linguaggio – talvolta molto lucido – dice di un profondissimo substrato culturale che rimanda ad una supposta ‘naturalità ‘ maschile aggressiva e controllante e ad una visione del femminile in qualche modo speculare, come se fosse questo che le donne vogliono dalla relazione con l’altro?
Se molte di queste domande, durante gli 83 minuti del documentario, sembrano propendere verso la risposta più pessimista, il vero punto di svolta è affidato ad una donna vittima di abusi e violenza la cui presenza viene, in un primo momento, contestata dai detenuti proprio perché irrompe su una scena in cui è meno difficile essere l’unica voce narrante. Non si racconterà qui il contenuto del suo racconto, ma lo spiraglio di luce è quello che lei apre e che i sex offenders raccolgono e che, dice, non si dà senza il cambiamento del maschile come del femminile. Non si tratta evidentemente di distribuire attenuanti ai comportamenti né in senso giuridico né in senso morale, né tantomeno di indebite equiparazioni, ma si tratta di mettere a fuoco quell’instabile terreno psichico e culturale sul quale si muovono le relazioni umane e gli umani e che richiede consapevolezza e lavoro, per non farci cadere, per non fare di noi, di nuovo e ancora, dei carnefici o delle vittime. Ad oggi sappiamo che dei 248 uomini seguiti dentro e fuori dal carcere dall’équipe di Giulini, solo 7 hanno nuovamente compiuto un reato sessuale.