In “Lei mi parla ancora” Pupi Avati porta sullo schermo il memoir di Giuseppe Sgarbi che racconta 65 anni di vita coniugale, i due figli Elisabetta e Vittorio, un segreto riscoperto e un addio “letterario” struggente ma a suo modo vitale. In un cast guidato dal delicato e mai stucchevole “patriarca” Renato Pozzetto e dall’intramontabile “consorte” Stefania Sandrelli, spiccano la freschezza di Isabella Ragonese, la tormentata insicurezza di Fabrizio Gifuni e l’onirica tenerezza di Alessandro Haber
Lei mi parla ancora, l’ultimo film di Pupi Avati visibile su Sky, inizia intorno alla metà degli anni Cinquanta, dalle parti di Ferrara. Appena fuori dalla chiesa, poco prima di sposarsi con Nino (Lino Musella), Rina (Isabella Ragonese) mette in mano all’uomo che sta per diventare il compagno di una vita intera una lettera che contiene una solenne promessa: se continueranno a donarsi reciproco e infinito amore diventeranno immortali. In tutti i luoghi e in tutte le stagioni. Ma era una promessa impossibile da mantenere. E oggi, dopo sessantacinque anni, Rina (con il volto di Stefania Sandrelli) è morta e per Nino (Renato Pozzetto) la vita sembra aver totalmente smarrito il suo senso. Si aggira infatti sperduto nella grande casa di campagna piena di oggetti, ricordi e opere d’arte, illudendosi di sentire ancora la voce della sua adorata Rina.
Per cercare di dare un senso a questa improvvisa e intollerabile solitudine, la figlia editrice (Chiara Caselli) convince uno scrittore ambizioso e frustrato (Fabrizio Gifuni) a trasformarsi in un riluttante ghostwriter. Tra il cinico scrittore dal cuore inaridito e l’anziano farmacista dalla mente offuscata all’inizio l’incomprensione è totale, ma poco alla volta si crea uno strano e vitale rapporto, fatto di confidenza e rispetto reciproco. Il risultato sarà un libro di memorie capace di raccontare una storia d’amore straordinaria, pur nel suo nutrirsi di ordinaria quotidianità. Il libro di cui viene raccontata la difficile gestazione è quello effettivamente scritto da Giuseppe Sgarbi e pubblicato dalla figlia Elisabetta, nota editrice e regista, ed è un corposo memoir intriso di nostalgia, in cui il regista sembra essersi rispecchiato senza riserve.
Tutto il film ruota in effetti intorno all’immagine di quella lettera perduta e ritrovata che promette un amore capace di rendere immortali. Niente di meno. Qualcosa in cui credere, da cui trarre alimento e conforto, anche e soprattutto quando ci si sente fin troppo consapevoli della propria mortalità. Come un antidoto gentile alla mesta consapevolezza della nostra finitudine. L’eternità dell’amore viene così raccontata attraverso i sorrisi timidi e intrecciati di Isabella Ragonese e Stefania Sandrelli, gli sguardi scettici e arruffati di Gifuni, gli occhi liquidi di Renato Pozzetto. Pura nostalgia del passato che non diventa mai stucchevole. Il risultato è un film struggente, capace di strappare sorrisi e lacrime, una storia d’altri tempi che cerca e trova un suo posto anche nel presente.
Pupi Avati ha voluto come protagonista Renato Pozzetto e la scelta appare davvero felice, ma non è l’unica valida all’interno di un cast composito ed efficace, dove spiccano attori incapaci di deludere, da Fabrizio Gifuni a Stefania Sandrelli ad Alessandro Haber: ma il centro della scena lo conquista alla fine Isabella Ragonese, ai cui sorrisi incantevoli il regista sembra appendere la fiducia nella possibilità di una testarda e amorevole resilienza allo scorrere implacabile del tempo. Un film immerso nella nostalgia e nel ricordo, che riflette sul pensiero della morte senza annegare nella paura e nel rimpianto, soprattutto perché si rivela capace di riassumere – a uso dei cinici e degli scettici di ogni età ed epoca – le ragioni della vita e dell’amore.
Procedendo con passo dolente e garbato, esponendo con pudore la fragilità degli anziani e rievocando con delicatezza frammenti e schegge di una giovinezza ormai perduta, come fossero merletti preziosi e delicati da esporre per la loro bellezza ma al tempo stesso da proteggere, Pupi Avati si prende la libertà di andare avanti e indietro nel tempo, senza aggiungere didascalie, mostrando le feste danzanti lungo l’argine del Po e subito dopo il cineforum in piazza con la proiezione del Settimo sigillo di Ingmar Bergman. E rubando a Cesare Pavese l’epigrafe perfetta a questo film: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia”.
Lei mi parla ancora di Pupi Avati, con Renato Pozzetto, Fabrizio Gifuni, Isabella Ragonese, Stefania Sandrelli, Lino Musella, Chiara Caselli, Alessandro Haber, Serena Grandi, Nicola Nocella